Introduzione
Della
difficoltà di collocare in una precisa corrente artistico-letteraria un’opera
come Canti del Caos[1]
dello scrittore mantovano Antonio Moresco ha già dato prova Raffaele
Donnarumma il quale, nella conclusione del suo saggio La guerra del racconto: Canti del Caos di Antonio Moresco[2],
ha cercato di individuare il canone entro il quale l’autore pone le sue radici.
E in effetti la difficoltà, l’impossibilità talvolta, di ridurre una
determinata opera o uno stesso autore ad una sterile etichetta costituisce da
secoli una sorta di “marchio di qualità”.
Parlare
di Dante come di uno stilnovista, di Leopardi come un romantico o di Montale
come di un ermetico è infatti possibile soltanto al costo di ardite forzature
che lasciano al di fuori dell’etichetta l’essenza stessa dell’autore.
Tuttavia
da sempre la critica letteraria sente la necessità di semplificare, di ridurre
ogni cosa a comode categorie sotto le quali inserire oggetti che non riesce a
comprendere in pieno. Moresco è un postmoderno? Un moderno? Lo stesso autore si
ribella a definizioni così semplicistiche in un’intervista rilasciata ad Andrea
Tarabbia[3]
poco prima della pubblicazione dell’ultima parte di Canti del Caos.
Ma
dunque chi è Antonio Moresco? La risposta non può che essere tautologica: come
Dante è Dante, Leopardi è Leopardi e Montale è Montale anche Moresco non potrà
che essere Moresco. Qualsiasi definizione o etichetta, infatti, non potrebbe
far altro che semplificare e banalizzare: in barba a chi ha sostenuto e tuttora
sostiene che in epoca moderna le voci più potenti si levano sempre all’interno
di un coro, appare sempre più evidente che i cosiddetti “grandi” sono grandi
proprio perché dal coro si sono tenuti ben distanti, forse troppo “stonati” per
poterne far parte.