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Le quattro Virtù Cardinali |
Premessa: su Dante personaggio simbolico
Il tema “Dante-personaggio” (da qui semplicemente Dante) è presente nella critica dantesca
sin dagli inizi del XX secolo, a partire dal D’Ovidio[1]
per giungere fino alla recente interpretazione di Santagata[2].
Tuttavia, se è sempre stata chiara la distinzione tra un Dante personaggio (agens) e un Dante autore (auctor) all’interno della Divina Commedia, meno trasparente
risulta essere quella tra un Dante
storico (un uomo) e un Dante universale (l’uomo); distinzione che necessita di essere chiarita prima di
addentrarci nel vivo della discussione.
Ancora Enzo Girardi[3],
sulla scia dello Spitzer, parlava di “un personaggio […] sentito come
simbolico, paradigmatico, fornito di quella natura «empirico-universale» in
grazia della quale Dante si dimostrerebbe «not
interested, paratically, in himself qua himself, but qua example of the
generally human capacity for cognizing the supramundane[4]»”, senza accorgersi, tuttavia, della
profonda differenza ed incompatibilità dei due termini “simbolico” e
“paradigmatico”.
Intendendo “simbolico” come cosa che non vale per
sé, per la sua realtà o entità, ma per ciò che rappresenta, notiamo subito come
tale definizione non possa in alcun modo riferirsi ad un personaggio vivo e
sempre attivamente presente (in particolare nella seconda cantica) come il
protagonista della Commedia. In primo
piano abbiamo sempre Dante Alighieri, guelfo fiorentino nato nel 1265, con le
sue vicende private, le sue idee, la sua storia, i suoi pensieri. Che poi tutto
questo serva da paradigma, da esempio, da modello in cui rispecchiarsi è
indubitabile. Parleremo perciò di Dante
come di un personaggio paradigmatico ma non simbolico, il cui valore universale
non deriva dal personaggio stesso ma da un qualcosa a lui esterno. Non è dunque
Dante ad essere simbolo dell’umanità
ma l’umanità a doversi rispecchiare in Dante, grazie ad un meccanismo d’identificazione
che ha come strumento principale la maraviglia,
l’eccezionalità dei fatti narrati, e come fine quello didattico-didascalico.
Poste queste premesse, per analizzare Dante nella sua scalata verso la
salvezza, dovremo seguire il suo percorso dai piedi alla vetta della Montagna
per diverse volte, concentrandoci ognuna di esse su un aspetto differente. In
particolare possiamo analizzare Dante da
tre punti di vista: come penitente nella sua evoluzione comune alle altre anime;
come poeta nella sua evoluzione poetica (che, come vedremo, si riflette nella
sua evoluzione umana); come pellegrino nella sua evoluzione morale.
1.
Dante Penitente
La definizione “Dante
penitente” non è affatto scontata come potrebbe apparire. Riguardo alle
altre due cantiche, infatti, difficilmente si potrebbe parlare di Dante dannato o beato, mentre nel Purgatorio vengono ad instaurarsi
situazioni per cui è legittimo parlare del protagonista come di un “collega” dei penitenti[5].
Nella cantica definita universalmente come la più “umana”
verrebbe naturale pensare ad una prevalenza del pronome personale “io”, grazie al quale i personaggi
esprimono loro stessi. In realtà nel Purgatorio
si contano 440 occorrenze di “io”
contro le ben 539 dell’Inferno mentre
a prevalere è il pronome di prima persona plurale con ben 123 occorrenze
rispetto alle 93 della prima cantica. Di queste occorrenze è interessante
notare come nella maggior parte dei casi “noi”
coinvolga lo stesso Dante, talvolta insieme
a Virgilio:
Non son li editti etterni per noi guasti,
ché questi vive, e Minòs me non lega; (Pg I, 76-77)
talvolta insieme alle anime penitenti:
così intrammo noi
per la callaia,
uno innanzi altro prendendo la scala
che per artezza i salitor dispaia. (Pg XXV, 7-9)
Qualcosa è cambiato rispetto all’inferno e Dante non
tarda a farcelo notare (Pg I,13-15):
è il ritorno imperioso del tempo, assente dai due regni estremi e protagonista
assoluto di questa cantica fin dal primo canto. Di questo tempo partecipa tutto
il regno: da una parte Dante e
Virgilio costantemente sollecitati ad ascendere (prima da Catone, poi da
Virgilio stesso); dall’altra le anime stesse che vedono nel tempo e nell’attesa
lo strumento principale della loro pena ma anche della loro speranza.
Mutando il meccanismo della pena muta anche l’atteggiamento
di Dante nei suoi confronti. Se
nell’inferno, infatti, anche nei momenti di più attiva compartecipazione, il
protagonista rimane estraneo alla pena, che non può (né potrebbe) sfiorarlo,
nel purgatorio Dante è partecipe di
ognuna delle pene delle anime che incontra. In particolare Dante condivide con i penitenti:
·
La posizione.
Lo si nota confrontando l’episodio di Brunetto Latini con quello di Oderisi da
Gubbio:
Io non osava scender de la strada
Per andar par di lui; ma ‘l capo chino
Tenea com’uom che reverente vada. (If XV, 43-45)
Ascoltando chinai in
giù la faccia;
e un di lor, non questi che parlava,
si torse sotto il peso che li ‘mpaccia,
e videmi e conobbemi e
chiamava,
tenendo li occhi con fatica fisi
a me che
tutto chin con loro andava (Pg XI, 73-78)
Qui, nonostante Dante sicuramente provasse più
affetto verso Brunetto, quasi un padre per lui, che non verso Oderisi, tuttavia
nel primo caso troviamo il protagonista ad un gradino superiore rispetto al
dannato, estraneo alla sua pena, nel secondo, invece, abbiamo una
partecipazione fisica, oltre che morale. Casi di condivisione della posizione
sono poi distribuiti in tutta la cantica:
Io m’era inginocchiato e volea dire; (Pg XIX, 127)
Si com’ fui dentro, in un bogliente vetro
gittato mi sarei per rinfrescarmi,
tant’era ivi lo’ncendio sanza metro. (Pg XXVII, 49-51)
·
Parte della pena.
Questo può avvenire in due modi: o grazie agli esempi di virtù o di peccato
punito che hanno la medesima funzione didattica tanto per Dante quanto per le anime:
L' angel che venne in
terra col decreto
de la molt'anni lagrimata pace,
ch' aperse il ciel del suo lungo divieto,
dinanzi a noi pareva sì verace
quivi intagliato in un atto soave,
che non sembiava imagine che tace. (Pg X,
34-39)
La prima voce che passò volando
Vinum
non habent altamente disse,
e dietro a noi
l' andò reiterando. (Pg XIII, 28-30)
oppure grazie alla confessione da parte di Dante dei suoi peccati e del fatto che,
terminata la sua esistenza terrena, sarà nuovamente ospite della Montagna:
«Li occhi», diss' io,
«mi fieno ancor qui tolti,
ma picciol tempo, ché poca è l' offesa
fatta per esser con invidia vòlti.
Troppa è più la paura
ond' è sospesa
l' anima mia del tormento di sotto,
che già lo 'ncarco di là giù mi pesa». (Pg XIII, 133-138)
·
Le regole proprie del regno.
Se infatti nel regno infernale a Dante erano
concessi privilegi esclusi ad ognuno dei dannati, qui il personaggio è quasi
del tutto accomunato alle anime che incontra: come loro può ascendere per le
varie cornici (anche se molto più rapidamente), come loro deve sottostare alle
regole di tale ascensione come l’impossibilità di salire di notte:
«Com’è ciò?», fu
risposto. «Chi volesse
salir di notte, fora elli impedito
d’altrui, o non sarria ché non potesse?».
E ‘l buon Sordello in
terra fregò ‘l dito,
dicendo: «Vedi? sola questa riga
non varcheresti dopo ‘l sol partito: (Pg VII, 49-54)
·
Il tempo.
Nell’Inferno Dante si trovava di
fronte ad anime sospese eternamente nello stesso atteggiamento, la cui vicenda,
definitivamente conclusa, Dante visitava
e registrava[6]
. Qui invece incontra anime di cui si può supporre un’evoluzione che,
analogamente a quella di Dante, si
svolge nel tempo come “acquisizione e
conquista”[7],
sebbene la vicenda di Dante si svolga
nel tempo del racconto mentre quella delle anime (con l’eccezione di quella di
Stazio) in un tempo imprecisato.
Sembra dunque spiegata la prevalenza del “noi” nella cantica purgatoriale: un “noi” che indica l’avvicinamento di Dante alle anime fino alla quasi completa immedesimazione:
noi siam peregrin come voi siete. (Pg II, 63)
la quale si riflette anche nel mutuo scambio di
funzioni che, se con le anime dannate era molto raro, qui è costantemente
presente. Le anime hanno infatti avuto una funzione didattica per Dante sin dall’inizio dell’opera, ma qui
Dante stesso, attraverso la promessa
di ravvivare in terra la loro memoria, si fa strumento attivo della loro
purificazione.
Non fia sanza mercé la tua parola,
s’io ritorno a compier lo cammin corto
di quella vita ch’al termine vola. (Pg XX, 37-39)
La dimensione corale, da sempre rilevata nel Purgatorio, sembrerebbe dunque includere
anche Dante che, rispetto a Dio, da
soggetto della giustizia divina qual era stato nell’inferno, diviene oggetto
della Sua misericordia, al pari delle altre anime.
È una dimensione corale che, tuttavia, si interrompe
bruscamente col passaggio al paradiso terrestre, dove Dante si ritrova di nuovo solo, al di qua del fiume Leté, separato
da uno spettacolo di esseri a lui infinitamente superiori dal quale è escluso
sia fisicamente, sia moralmente.
2.
Dante personaggio-poeta
In un suo fondamentale saggio[8] Gianfranco
Contini si accorse di come fosse più agevole interpretare alcuni passi della Divina Commedia considerando Dante come un personaggio-poeta. Per
Contini all’incontro con anime di poeti e letterati corrisponde sempre
l’impostazione di un discorso meta-letterario che porta Dante alla rivisitazione ed al superamento di una determinata fase
poetica. Questa riflessione, nella seconda cantica, si apre con l’episodio di
Casella:
Amor
che ne la mente mi ragiona
cominciò elli allor sì dolcemente
che la dolcezza ancor dentro mi suona. (Pg II, 112-114)
nel quale alla canzone intonata dall’amico di Dante, simbolo di una fase poetica sempre
ancorata all’amore per la Filosofia, corrisponde l’aspro rimprovero di Catone e
dunque, come vedremo anche nella confessione finale di fronte a Beatrice, un
riconoscimento implicito della pericolosità di una tale poesia.
La riflessione meta-letteraria si intensifica poi
dopo l’incontro con Stazio tra i canti XXI-XXVII, nei quali il presentarsi di
vari poeti offre l’occasione di ripercorrere altrettante tappe della produzione
dantesca. Con Forese (Pg XXIII-XXIV) ci si riferisce ad alcuni
esperimenti stilistici come quello della “tenzone”, mentre con Bonagiunta si
innesta la problematica dello stilnovo. Dante
si fa qui consacrare capostipite di un nuovo modo di rimare, mai toccato da
altri, per cui, con la canzone “Donne
ch’avete intelletto d’amore”, si passa dalla poesia feudale e formale
legata all’amor cortese alla visione trascendentale dell’amore: una maniera
“dolce” (per stile) e “nova” (per contenuti) propria esclusivamente di Dante.
Ma dì s’i’ veggio qui
colui che fore
trasse le nove rime, cominciando
‘Donne ch’avete intelletto d’amore’».
E io a lui: «I’ mi son
un che, quando
Amor mi spira, noto, e a quel modo
ch’e’ ditta dentro vo significando». (Pg
XXIV, 49-54)
Il superamento di Guido Guinizzelli è invece nella
stessa figura di Beatrice, donna-angelo che da semplice metafora diviene realtà
con uno scatto analogico. E in effetti è proprio nelle parole di Beatrice che Dante, una volta confessati i suoi
peccati, scopre il senso universale
della sua carriera poetica:
Tu nota; e sì come da me son porte,
così queste parole segna a’ vivi
del viver ch’è un correre a la morte. (Pg
XXXIII, 52-54)
È la poesia dunque a rendere universale tutta la
vicenda di Dante che, altrimenti,
resterebbe relegata ad una sterile individualità. Un nuovo tipo di poesia,
direttamente ispirato da Amore (la Grazia divina), a cui Dante affida un valore salvifico.
Si comprende quindi come mai gran parte della
riflessione poetica sia affidata alla seconda cantica: proprio come il
purgatorio è la strada per giungere alla salvezza, la poesia, nelle sue nuove
forme conquistate durante l’ascesa, può avere quella stessa funzione sulla
terra.
2.1.
Le due memorie
Il ripercorrere da parte di Dante di alcune tappe della sua evoluzione poetica non è tuttavia
fine a se stesso ma è anche un modo di analizzare in maniera critica alcuni
momenti della sua esistenza che la poesia riflette e preserva. Ogni amico, ogni
poeta incontrato nel Purgatorio diventa
occasione per ripercorrere la propria storia, tanto che ogni anima costituisce “quasi un doppio che offre
la sua chiaroveggenza di candidato ormai certo alla salvezza, ai fini di una
ricostruzione critica del passato di Dante”[9].
Se, come abbiamo notato in precedenza, il purgatorio
è il regno del tempo, ad esso si associa una mutata funzione della memoria.
Tutti, Dante compreso, si trovano in
quel luogo solo momentaneamente, tutti si procedono verso la vetta, tutti
saranno ammessi un giorno al regno celeste. E tutti ricordano ancora la terra
allo stesso modo, un modo completamente diverso sia dalla straziante memoria
che i dannati serbano del loro passato, sia dalla visione distaccata che i
beati hanno della vita terrena. L’elemento memoriale viene dunque a costituire
un ulteriore punto di vicinanza tra le anime penitenti e Dante.
La memoria ricopre, pertanto, una duplice funzione
per tutti gli ospiti della Montagna: una funzione negativa, come pericolosa
tentazione a voltarsi indietro (una sorta di sindrome di Orfeo), ricorre
specialmente nei canti dell’antipurgatorio. Memorabile il rimprovero di Catone
a Dante, Virgilio e Casella, posti
tutti sullo stesso piano, colpevoli di aver indugiato in un passato che ancora
presenta le sue insidie e le sue seduzioni:
gridando: «Che è ciò, spiriti lenti?
qual negligenza, quale stare è
questo?
Correte al monte a spogliarvi lo scoglio
ch’esser non lascia a voi Dio manifesto» (Pg II, 120-123)
È un passato che trattiene le anime, e Dante stesso, ancorati alla terra ed ai
suoi valori, dal quale il protagonista deve simbolicamente distaccarsi una
volta attraversata la porta del purgatorio:
Poi pinse l’uscio a la porta sacrata,
dicendo: «Intrate; ma facciovi accorti
che di fuor torna chi ‘n dietro si guata». (Pg IX, 130-132)
Col procedere dell’ascesa la memoria tenderà ad
avere un valore sempre più positivo, come strumento indispensabile per la
purificazione. Rievocare e prendere le distanze da alcuni momenti topici della
sua vita (l’attrazione per la filosofia, lo scontro con Forese, gli anni della
gioventù, la morte di Beatrice) costituirà per Dante l’ultimo, doloroso ostacolo necessario per adempiere alla
confessione imposta dall’ammiraglia Beatrice:
Piangendo dissi: «Le presenti cose
col falso lor piacer volser miei passi,
tosto che ‘l vostro viso si nascose». (Pg XXXI,
34-36)
e se ‘l sommo piacer sì ti fallio
per la mia morte,
qual cosa mortale
dovea poi trarre te nel suo disio? (Pg XXXI, 52-54)
La scalata segna dunque un passaggio graduale da una
memoria nostalgica, come “elegia del corpo”, ad una memoria critica, a cui
corrisponde il passaggio da una rivisitazione nostalgica di momenti poetici (come
nell’episodio di Casella) ad una loro rianalisi critica (come nell’episodio di Beatrice).
3.
Dante Pellegrino
Nonostante la dimensione corale che abbiamo rilevato
trattando di Dante penitente, è pur vero che la voce di Dante è quella che più emerge dal coro e
che la descrizione del suo viaggio sia al centro della vicenda, tanto che il
Porcelli parla di “struttura
eminentemente soggettiva della cantica”[10].
Come pellegrino, Dante deve sopportare
tutta la fatica dell'ascesa; fatica in gran parte dovuta alla pesantezza del
suo corpo, che viene a costituire il
maggior elemento di distinzione tra il protagonista e le anime.
Sin dal principio la corporeità di Dante è vista con meraviglia da parte
delle anime penitenti:
L’anime, che si fuor di me accorte,
per lo spirare, ch’i’ era ancor vivo,
maravigliando diventaro smorte. (Pg II, 67-69)
Infatti, alla volontà di immedesimazione di Dante corrisponde sempre lo stupore
delle anime nell’accorgersi, grazie alla presenza della luce, che Dante è ancora vivo.
Li occhi rivolsi al suon di questo motto
e vidile guardar per maraviglia
pur me, pur
me, e’l lume ch’era rotto. (Pg V,7-9)
Si può parlare, dunque, di una vera e propria “elegia
del corpo” per cui le anime penitenti, alle quali non manca la speranza come a
quelle dannate, sentono tuttavia la nostalgia del proprio corpo. È una mancanza
che rende impossibile la totale immedesimazione di Dante con le anime che incontra: impossibilità che si nota
soprattutto nel topos dell’abbraccio
che, nel purgatorio, è sempre cercato ma mai realizzato.
Io vidi una di lor
trarresi avante
per abbracciarmi con sì grande affetto,
che mosse me a far lo somigliante.
Ohi ombre vane, fuor
che ne l’aspetto!
tre volte dietro a lei le mani avvinsi,
e tante mi tornai con esse al petto. (Pg II, 76-81)
Quali ne la tristizia di Ligurgo
si fer due figli a riveder la madre,
tal mi fec’io, ma non a tanto insurgo, (Pg XXVI, 94-96)
La dimensione corporea di Dante è quindi molto marcata nella seconda cantica, sotto diversi
aspetti. È simbolo dell’attaccamento alle cose terrene e, in quanto tale,
rallenta la salita di Dante , il cui
corpo diminuisce di peso via via che il pellegrino procede verso la vetta.
Questo stratagemma consente al personaggio di confessare quali siano i peccati
per cui, nella sua seconda visita, dovrà fare ammenda. Il primo grande
“alleggerimento” lo abbiamo ,infatti, una volta lavata via la P della superbia,
peccato di cui forse Dante si sentiva particolarmente colpevole:
Già montavam su per li
scaglion santi,
ed esser mi parea troppo più lieve
che per lo pian non mi parea davanti.
Ond’io: «Maestro, dì,
qual cosa greve
levata s’è da me, che nulla quasi
per me fatica, andando, si riceve?». (Pg XII, 115-120)
Il secondo invece riguarda la P dell’avarizia, il
peccato che Dante riteneva più insidioso e diffuso nella sua società:
E io più lieve che per l’altre foci
m’andava, sì che sanz’alcun labore
seguiva in sù li spiriti veloci; (Pg XXII, 7-9)
È una perdita di peso soprattutto simbolica: per trasumanare e accedere al regno celeste Dante deve progressivamente distaccarsi
dalle passioni terrene ed il purgatorio è il teatro di questo distacco. Un
distacco che deve avvenire nel modo più rapido possibile: Dante nella sua scalata è costantemente incalzato da Virgilio e
dalle altre anime ad affrettare la sua salita[11],
tanta è la volontà di giungere alla vetta e quindi alla salvezza.
Inoltre, al corpo il Poeta affida anche un altro
compito fondamentale: quello di rendere visibili le emozioni di Dante attraverso il racconto puntuale
delle sue reazioni fisiche:
quand’io senti’, come cosa che cada,
tremar lo monte; onde mi prese un gelo
qual prender suol colui ch’a morte vada. (Pg XX, 128-130)
per dicere a Virgilio: ‘Men che dramma
di sangue m’è rimaso che non tremi:
conosco i segni de l’antica fiamma’. (Pg XXX, 46-48)
Una volta superata la paura del regno infernale,
provocata la maggior parte delle volte dalla consapevolezza di Dante che sarebbe bastato un momento, un
punto, e la sua anima sarebbe stata
perduta per sempre, qui, nel purgatorio, domina incontrastata la vergona, forse
dovuta alla progressiva presa di coscienza della propria imperfezione.
tanta vergogna mi gravò la fronte. (Pg XXX, 78)
Ed ella a me: «Da tema e da vergogna
Voglio che tu omai ti disviluppe, (Pg XXXI,
31-32)
Vergogna manifestata, con atteggiamento umile, anche
negli innumerevoli inchini di Dante di
fronte a figure angeliche o comunque particolarmente virtuose:
Lo duca mio allor mi diè di piglio,
e con parole e con mani e con cenni
reverenti mi fé le gambe e ‘l ciglio. (Pg I, 49-51)
Divoto mi gittai a’ santi piedi;
misericordia chiesi e ch’el m’aprisse,
ma tre volte nel petto pria mi diedi. (Pg IX, 109-111)
Sempre di “creaturalità” (Blasucci) del pellegrino
si potrebbe parlare in relazione ai sonni ed ai risvegli di Dante. Infatti con il ritorno incalzante
della dimensione temporale si fanno largo i bisogni materiali del protagonista
che, dovendo trascorrere tre notti sulla montagna, ha necessità di dormire:
quand’io, che meco avea di quel d’Adamo,
vinto dal sonno, in su l’erba inchinai
là ‘ve già tutti e cinque sedavamo. (Pg IX,
10-12)
Infine anche le esitazioni, tutte umane, di Dante nel corso del suo viaggio sono
sempre messe in relazione alla presenza del corpo:
In su le man commesse
mi protesi,
guardando il foco e imaginando forte
umani corpi già veduti accesi.
Volsersi verso me le
buone scorte;
e Virgilio mi disse: «Figliuol mio,
qui può esser tormento, ma non morte. (Pg
XXVII, 16-21)
la cui perdita definitiva, dopo l’attraversamento
della cinta di fuoco in Pg XXVII,
segna la conclusione di un viaggio che ha portato Dante dall’umana fragilità ad una “riconosciuta autonomia
spirituale”[12].
3.1.
Le Virtù
La
scalata della montagna purgatoriale si configura quindi come un percorso
iniziatico, ricco di elementi rituali, il cui fine è il progressivo distacco
dal corpo e dalle passioni ad esso legate. D’altra parte il viaggio non si
esaurisce in questo.
Se vediamo l’intera Divina Commedia come una progressiva preparazione alla salvezza ed
alla contemplazione del mistero trinitario, allora la seconda cantica potrebbe
essere vista come il viaggio per la conquista delle virtù cardinali: il maggior
grado di elevazione morale senza la rivelazione. Quest’interpretazione
sembrerebbe convalidata da un gran numero di simmetrie all’interno della
cantica che difficilmente possono essere considerate casuali.
Le stelle rappresentanti le quattro virtù cardinali
sono infatti una delle prime cose che Dante
nota una volta riemerso dalla voragine infernale:
I’ mi volsi a man destra, e puosi mente
a l’altro polo, e vidi quattro stelle
non viste mai fuor ch’a la prima gente. (Pg I, 22-24)
ed esse risplenderanno durante tutta la scalata. Le
stelle rappresentanti le tre virtù teologali, invece, compaiono di notte,
quando tutta la montagna tace e si ferma; forse a significare, come comunemente
si riteneva nella teologia medievale, che se le prime possono essere
conquistate soltanto grazie ad uno sforzo umano, le altre possono essere
conferite unicamente per grazia divina, rendendo inutile ogni sforzo.
Le stesse virtù, questa volta nelle vesti di quattro
fanciulle, compaiono nuovamente al termine del viaggio. Fino a quel momento Dante le aveva osservate dal basso verso
l’alto; adesso, dopo l’attraversamento del muro di fuoco e la dolorosa
confessione a Beatrice, viene da loro abbracciato, a simboleggiare una loro
piena acquisizione:
Indi mi tolse, e bagnato m’offerse
dentro a la danza de le quattro belle;
e ciascuna del braccio mi coperse. (Pg XXXI, 103-105)
Del resto la stessa struttura del purgatorio farebbe
pensare ad un progressivo raggiungimento delle quattro virtù. Escludendo il
paradiso terrestre, come luogo del loro raggiungimento, notiamo che la montagna
può essere suddivisa in quattro sezioni: l’antipurgatorio con coloro che
tardarono a pentirsi, poi, seguendo la ripartizione che propone Virgilio in Pg XVII, le cornici I-III con coloro che
rivolsero il loro Amore verso un “malo obietto”; la cornice IV con coloro che
mancarono di Amore per “poco di vigore”; le cornici V-VII con coloro che ebbero
“troppo di vigore” nell’amore per le
cose terrene.
Sembra plausibile dunque associare ad ognuna di
queste sezioni una virtù corrispondente, notando che là dove la corrispondenza
si fa meno diretta il poeta ci viene in
aiuto lasciandoci alcuni segnali.
È evidente che alla mancanza per “poco di vigore”
corrisponda la Fortezza, ossia la fermezza e la costanza nella ricerca del bene,
così come altrettanto ovvia sembra la contrapposizione tra il “troppo di vigore”
nell’Amore per le cose terrene e la
Temperanza, virtù che modera l’attrattiva dei piaceri sensibili e rende capaci
di equilibrio nell’uso della materia. Abbastanza chiara è anche la
contrapposizione tra l’amore verso un “malo obietto” e la Giustizia, che
consiste nella volontà costante di dare a Dio e al prossimo ciò che è loro
dovuto; tuttavia, se non lo fosse abbastanza, il poeta pone all’ingresso di
questa sezione un angelo che brandisce una spada (tradizionalmente simbolo di
giustizia) che poggia i piedi su di un gradino colorato di rosso: colore che,
se comunemente nella Commedia indica
la Carità, qui è più facilmente interpretabile come la Giustizia, dato che è
più plausibile che un angelo “calpesti” una virtù umana piuttosto che una
derivante direttamente da Dio.
e una spada nuda avea in mano,
che reflettea i raggi sì ver’ noi,
ch’io drizzava spesso il viso in vano. (Pg IX, 82-84)
Lo terzo, che di sopra s’ammassiccia,
porfido mi parea, sì fiammeggiante,
come sangue che fuor di vena spiccia. (Pg
IX, 100-102)
Più complessa l’associazione del peccato di coloro
che tardarono a pentirsi con la Prudenza, virtù che esorta la ragione a
discernere in ogni circostanza il nostro vero bene, scegliendo i mezzi adeguati
per compierlo. Tuttavia prudente, in senso medievale, non è tanto l'indeciso,
il cauto, il titubante, ma al contrario è uno che sa decidere con sano
realismo, senza deviazioni né tentennamenti. Questa capacità di decisione, che
si contrappone al tardivo pentimento dei
penitenti dell’antipurgatorio, è messa in evidenza anche da Tommaso d’Aquino, le
cui opere avevano sicuramente influito sul pensiero di Dante , che scriveva: “la prudenza è la virtù più
necessaria per la vita umana. Infatti il ben vivere consiste nel ben operare.
Ma perché uno operi bene non si deve considerare solo quello che compie, ma
anche in che modo lo compie e così si richiede che agisca non per impulso o per
passione, ma secondo una scelta o decisione retta” (Summa Theologiae, I-II,
q.57, a.5). L’aquinate riteneva inoltre che questa virtù dovesse essere propria
degli uomini politici: “spetta alla prudenza deliberare, giudicare e comandare
rettamente i mezzi che servono per raggiungere il bene di tutta la collettività”
(Summa Theologiae, II-II. q. 47. a. 10). Infatti proprio in questa sezione del
purgatorio sono puniti i Principi negligenti.
Il maggior elemento di conferma, però, lo troviamo
forse nel fatto che San Tommaso definisse la Prudenza come “auriga virtutum” (cocchiere delle
virtù), la virtù che conduce alle altre virtù, argomento che potrebbe spiegare
la sua collocazione alla base del purgatorio.
Peraltro, a conferma di tale interpretazione, sembra
significativo il fatto che l’ultima delle virtù conquistate da Dante sia la Temperanza e che la sua
conquista avvenga contestualmente alla rinuncia ai valori corporei con
l’attraversamento del muro di fuoco.
Questa interpretazione sembra preferibile rispetto
ad una semplice contrapposizione tra i sette peccati e le sette virtù per
diversi motivi. In primo luogo nella teologia medievale non sembrano esserci
riscontri riguardo ad una contrapposizione diretta tra i peccati capitali e le
virtù cardinali e teologali. In secondo luogo è il testo stesso a spingerci ad
una interpretazione diversa: le quattro virtù cardinali accolgono Dante in un caloroso abbraccio al
termine della sua scalata mentre le virtù teologali rimangono distanti da lui,
al di là del carro trainato dal grifone e quindi, simbolicamente, al di là
della rivelazione. Il tempo di acquisire quelle virtù verrà nel regno celeste.
Conclusioni
Si può dunque vedere come Dante, nella sua scalata verso la salvezza, sia costantemente
soggetto a due forze opposte: una legata al corpo, definibile “gravitazionale”,
che tende a trattenerlo legato alla terra ed ai valori che essa rappresenta;
l’altra legata alla Grazia ed alle Virtù, definibile “centripeta”, che invece
lo spinge ad ascendere verso la salvezza, verso il centro di tutto che è Dio.
Lo svolgersi della vicenda di Dante nel purgatorio risulta quindi molto meno lineare di quanto non
lo fosse nell’inferno: si tratta di un processo di acquisizione delle virtù
complesso e attivo basato sull’alternanza dialettica di momenti di piacevole
illusione seguiti da momenti di amaro disincanto.
Questo meccanismo si imposta fin dai primi canti,
con l’alternanza tra i momenti di rilassamento di Dante e Virgilio e l’incalzare dei rimproveri di Catone, e prosegue
per tutta la cantica fino al paradiso terrestre. Paradigmatica la vicenda di Dante tra i canti XXVII e XXX in cui
questa alternanza appare più esplicita.
Dopo la timorosa traversata del muro di fuoco della
cornice dei lussuriosi, che simboleggia non solo la liberazione dal peccato
della lussuria ma, in generale, la liberazione da ogni peccato, Dante si trova in una rinnovata
condizione spirituale , sottolineata dalle confortanti parole di Virgilio che,
nel suo ultimo discorso, riconosce a Dante
una conquistata autonomia intellettuale.
Tratto t’ho qui con ingegno e con arte;
lo tuo piacere omai prendi per duce;
fuor se’ de l’erte vie, fuor se’ de l’arte. (Pg
XXVII, 130-132)
Dante
può
dunque illudersi che il processo di liberazione dal male sia definitivamente
compiuto e che ora debbano seguire le gioie della foresta edenica. Tuttavia
alla dolcezza della foresta segue il disincanto dell’apparizione di Beatrice in
veste di severa giustiziera. Al divino intravisto e perduto succede l’umanità
della dolorosa confessione:
«Guardaci ben! Ben son, ben son Beatrice.
Come degnasti d’accedere al monte?
non sapei tu che qui è l’uom felice?». (Pg XXX, 73-75)
Dante,
che durante la scalata aveva progressivamente acquisito i tratti di una matura
gioventù, qui è di nuovo un bambino che piange per gli aspri rimproveri della
madre; se durante la scalata aveva condiviso quasi ogni cosa con le anime, in
un rapporto da pari a pari, qui è di nuovo del tutto estraneo alla realtà che
gli si para davanti, infinitamente più alta anche di colui che ha appena
compiuto un così arduo percorso di iniziazione.
Quali fanciulli,
vergognando, muti
con li occhi a terra stannosi, ascoltando
e sé riconoscendo e ripentuti,
tal mi stav' io; ed
ella disse: «Quando (Pg XXXI, 64-67)
Lo stupore, la maraviglia
che abbiamo visto essere il principale strumento di identificazione tra Dante e il lettore e che nell’inferno veniva prodotto dall’eccezionalità
dello spettacolo e dalla straordinarietà delle vicende, nel purgatorio si
genera da questo meccanismo di aspettative contraddette che produce un
avvicinamento del lettore a Dante e
di quest’ultimo alle anime penitenti.
A cura di Leonardo CANOVA
[1] Cfr. Opere di F. D’Ovidio; vol.I, in Studi
sulla Divina Commedia, Napoli 1931.
[4]
“Non interessato, in linea
di massima, a se stesso in quanto se stesso, ma in quanto esempio della
universale capacità umana di conoscere l’ultraterreno” [traduzione mia]
[5] F.Fido, Dall’antipurgatorio al Paradiso Terrestre: il tempo ritrovato di Dante,
in Letture Classensi 18, Longo 1989; p. 67.
[8] Cfr. G.Contini, Dante
personaggio-poeta, in Un’idea di
Dante, Einaudi 1970
[10] B.Porcelli, La Vicenda di Dante nel canto XXVII del «Purgatorio», in Studi sulla Divina Commedia, Patron
1970; p. 85.
[11] O. Mandel’stram in Conversazione su Dante, a.c. di R.
Faccani, Genova, Il Melangono, 1994, si accorge che “l’inferno, e ancor più il
purgatorio, celebrano la camminata umana, la misura e il ritmo dei passi”.
[12] B.Porcelli, La vicenda di Dante nel canto XXVII del «Purgatorio», in Studi sulla Divina Commedia, Patron 1970;
p. 87.
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