1. Introduzione al Canto
Il sesto canto dell’Inferno, con i suoi 115 versi, è uno dei più brevi di tutta la Commedia dantesca e può essere suddiviso
sommariamente in tre parti: una prima parte, descrittiva, in cui ci viene
presentato l’ambiente del terzo cerchio ed il suo custode, Cerbero (vv.1-36);
una seconda, narrativa, in cui Dante incontra il goloso Ciacco che si lancia in
una lunga invettiva contro Firenze e i peccati dei suoi cittadini (vv.37-93);
infine una parte dottrinale in cui Virgilio spiega a Dante la condizione dei
dannati dopo il giudizio universale (vv.94-115).
Dopo aver perso i sensi al termine dell’incontro con
Paolo e Francesca, Dante si risveglia nel mezzo di una piova, composta da grandine,
acqua tinta e neve, che percuote incessantemente i dannati che giacciono su
una distesa di terra putrida e puzzolente. Loro guardiano e aguzzino è Cerbero,
mostro mitologico-demoniaco sicuramente derivato dall’esempio virgiliano ma con
caratteri del tutto nuovi: è una fiera mostruosa non soltanto perché tricipite
ma soprattutto per quegli elementi umani (la barba, le mani, le facce) che
Dante immagina inseriti sul corpo canino. Non più mostro classico ma demone
medievale, Cerbero, con le barbe unte simbolo di ingordigia, vaga per il
cerchio e iscoia ed isquatra i
dannati.
Tra questi uno
solleva la testa e riconosce Dante. È Ciacco, personaggio di una straordinaria
vitalità espressiva sulla cui identità i critici spesso si sono interrogati
invano. Certo è che fosse un concittadino di Dante, probabilmente della
generazione precedente a quella del poeta. Se Cerbero aveva molto di umano, i
dannati di questo cerchio, immersi nella terra bagnata e puzzolente, hanno
molto di ferino e forse proprio in questo si spiega il contrappasso: i golosi
non seppero frenare con la ragione nemmeno il più elementare degli istinti
umani e, come in vita furono simili a bestie, qui lo saranno per l’eternità. La
continua mescolanza di elementi umani e ferini costituirà, come vedremo, uno
dei maggiori problemi nella collocazione dei termini nel sistema concettuale,
nonché l’elemento più affascinante del canto.
Ciacco, personaggio caratterizzato da una ricca
gestualità, si lancia quindi in un’incalzante invettiva contro i cittadini di
Firenze che, scontrandosi continuamente tra di loro, dilaniano la città con
infinite lotte intestine. Il tono accorato si rivela anche nella prima profezia
che riguarda, seppur indirettamente, Dante stesso: l’esito di questi scontri
sarà una temporanea vittoria dei guelfi bianchi (la fazione di cui faceva parte
il poeta) che, dopo nemmeno tre anni, saranno definitivamente cacciati da
Firenze dai neri, con terribili conseguenze per Dante stesso.
Esaurita la sua funzione Ciacco stravolge gli occhi
e torna ad essere dannato tra i dannati. Virgilio, spiegando che dopo il
giudizio universale la pena dei peccatori sarà ancora maggiore, scorta Dante
verso il cerchio successivo.
Se a livello di narrazione la parte che ci interessa
di più e sicuramente quella dell’incontro con Ciacco tuttavia, per il lavoro
che ci prefiggiamo di fare, è la parte descrittiva a suscitare la nostra
attenzione.
Infatti, dei 40 termini analizzati per valutarne una
possibile collocazione all’interno dello schema concettuale elaborato negli
anni ’60 da Hallig e Wartburg, ben 28 ricorrono in questi primi 36 versi.
Questi possono essere suddivisi in due aree semantiche principali: una legata
alla descrizione del territorio e del tempo atmosferico presente nel terzo
cerchio; l’altra legata invece al mondo animale (ma, come vedremo, anche umano)
che riguarda la descrizione del demonio
Cerbero.
Dal verso 37 ci spostiamo invece in un’area
semantica completamente diversa e pochissimi sono i termini appartenenti alla
sezione A del nostro sistema concettuale, legati prevalentemente alla
descrizione del cerchio e della pena dei dannati.
Con Ciacco siamo nell’universo delle passioni e dei
peccati umani e dunque a prevalere sono termini ad essi legati. Angoscia, pena, invidia, colpa, lagrimar sono tutti termini che indicano
l’atmosfera emotiva in cui Ciacco si lancia nella sua dura rampogna della città
di Firenze la quale, tuttavia, resta solo sullo sfondo. Nel canto sono
pochissimi i termini che rimandano alla realtà fisica cittadina: Firenze è
rievocata prevalentemente attraverso i penosi vizi dei suoi cittadini, gran
parte dei quali sconta le sue pene nei cerchi più profondi del regno infero.
L’asprezza dell’invettiva si riflette sull’asprezza
dei termini, in particolare quelli in rima: i molti suoni dentali (li cittadin de la città partita) e le
rime con suoni consonantici doppi (“Sacco-Ciacco-Fiacco”;
“Stanno-Affanno-Verranno”; “Selvaggia-Caggia-Piaggia”) vanno a creare una sorta
di solidarietà tra l’ambiente ostile del cerchio e la durezza delle parole di
Ciacco.
Per quanto riguarda il nostro obiettivo, tuttavia, i
problemi che il canto pone sono essenzialmente due: come si configura
l’ambiente del cerchio dei golosi? In che modo dobbiamo immaginare il Cerbero
dantesco?
Per rispondere a queste domande dobbiamo addentrarci
in un’analisi scrupolosa del lessico materiale di questo canto[1],
cercando di comprendere con esattezza che cosa intendesse Dante con determinati
termini. I risultati, come vedremo, saranno sorprendenti.
2. Il lessico materiale del VI canto
Data la mole di termini analizzati nella prima
sezione del canto abbiamo deciso di riportare i vv.1-36 per intero, mentre per
i termini successivi saranno riportate solamente le terzine in cui essi sono
contenuti. Il testo sarà seguito da una discussione, essenziale per i casi
semplici e più articolata per i casi dubbi, sugli usi antichi (danteschi e non)
di ogni termine e, al termine di ognuna di esse, l’indicazione della categoria
in cui il termine è stato collocato. Per chiarezza espositiva abbiamo inoltre
ritenuto opportuno evidenziare, nel testo dantesco, in rosso i termini analizzati e collocati, in grassetto i termini analizzati ma che non hanno trovato una
collocazione nello schema. Per i termini che nel testo si ripetono l’analisi
sarà riproposta soltanto nel caso vi sia un mutamento di significato o
particolarità degne di nota.
Talvolta si è
scelto di analizzare i sostantivi in modo isolato, altre volte l’intero
sintagma, altre ancora un semplice aggettivo, con un criterio di mera praticità
di collocazione. Non sono stati analizzati, invece, i nomi propri, ma una
proposta di collocazione del termine Cerbero
verrà avanzata nelle conclusioni.
2.1. Analisi dei singoli termini
Al tornar de la mente, che si chiuse
dinanzi a la pietà d’i due cognati,
che di trestizia tutto mi confuse, 3
novi tormenti e novi
tormentati
mi veggio intorno, come ch’io mi mova
e ch’io mi volga, e come che io guati. 6
Io sono al terzo
cerchio, de la piova
etterna, maladetta, fredda e greve;
regola e qualità mai non l’è nova. 9
Grandine grossa, acqua
tinta e neve
per l’aere
tenebroso si riversa;
pute la terra che
questo riceve. 12
Piova
Il termine piova,
deverbale da piovere, non sembrerebbe offrire particolari
problemi di collocazione. Come forma compare soltanto 3 volte in tutta l’opera
dantesca: in senso proprio per indicare la pioggia, come in questo caso, oppure
in senso figurato per indicare il propagarsi dello spirito divino (Pg XXX, 113) o, ancora, le lacrime del veglio di Creta da cui nasce il
Flegetonte (If XIV, v.132). Le 445
occorrenze sul Corpus TLIO ci attestano che la forma era già ampiamente
utilizzata prima di Dante con entrambe le valenze, sia in prosa che in poesia:
“Tre
cose sono le quale cacciano l'omo dala casa, cioè lo fu(m)mo, (et) la piova
che ent(r)a i(n) casa, (et) la mala moglie”
(Trattati di Albertano volg., a. 1287-88 (pis.);
Liber cons., cap. 3 - pag. 5006, riga
55) // “par che nel cor mi piova /
un dolce amor sì bono / ch' eo dico: «Donna, tutto vostro sono»” (Guido Cavalcanti (ed. Contini), 1270-1300
(fior.); 14, v. 11 - pag. 507,
riga 11).
Proseguendo nella lettura del canto, tuttavia, Dante
ci informa che questa piova, in
realtà, è composta da “grandine, acqua tinta e neve”. Ora, l’unico
fenomeno atmosferico capace di concentrare acqua, ghiaccio e neve è la
tempesta. È anche vero, però, che in
nessuna delle 445 occorrenze analizzate sul Corpus TLIO il termine piova è utilizzato per indicare una tempesta
e che Dante stesso, nel canto precedente, aveva usato il termine tempesta per descrivere l’ambiente del
cerchio dei lussuriosi (If V, v.29).
Dobbiamo quindi pensare ad un semplice criterio di variatio? Probabilmente no. Possiamo
immaginare che sul terzo cerchio si abbattano grandine, pioggia e neve ma senza
il carattere tempestoso che invece aveva caratterizzato il cerchio precedente.
Qui manca lo stravolgimento causato dal vento: acqua, ghiaccio e neve
precipitano sul terreno ordinatamente, inesorabilmente. Più propriamente,
dunque, il termine andrà collocato nella categoria:
A. L'universoàI. il cielo e l'atmosferaàb) il tempo atmosferico e i ventiàPioggia
In questo senso andranno
intese anche tutte le occorrenze di piova
o pioggia nel resto del canto,
salvo dove indicato diversamente.
Grandine
Passiamo dunque a vedere di che cos’è effettivamente
composta questa “etterna piova”. Il
primo dei suoi elementi è la grandine:
termine che risulta di abbastanza
semplice collocazione. Come lemma conta 2 occorrenze in tutta l’opera dantesca
nelle forme grandine e grando (Pg XXI, 46) per indicare in senso proprio la grandine. Nel Corpus
TLIO si contano 43 occorrenze del lemma grandine,
tutte legate al fenomeno atmosferico della grandine. Interessante
l’attestazione:
“E
picciolo spazio stette ch' egli ne cominciò a scendere un' acqua pistolenziosa
con una grandine grossa, con venti e con tempesta simile mai non veduta”
(Boccaccio, Filocolo, 1336-38;
L. 4, cap. 13 - pag. 376, riga 38).
probabilmente una ripresa diretta dal testo dantesco
da parte di Boccaccio. Ad ogni modo la collocazione è certamente:
A. L'universo àI. il cielo e l'atmosferaàb) il tempo atmosferico e i ventiàGrandine
Acqua
Indica indiscutibilmente l’elemento fisico “acqua”
come dimostrano sia gli utilizzi danteschi, sia quelli a lui contemporanei.
Tuttavia visto che quest’acqua fa
parte, insieme alla grandine e alla neve, della “piova etterna” che flagella il terzo cerchio, probabilmente denota
l’acqua che precipita e quindi, più propriamente, la pioggia. Del resto anche
le oltre 7000 occorrenze del lemma acqua nel
Corpus TLIO ci confermano che il termine era spesso utilizzato per indicare
l’acqua piovana:
“tucte le
fontane erano piene de sangue e l'acqua ke piovea da cielo era quasi
lacte” (St. de Troia e de Roma Amb., 1252/58
(rom.>tosc.)) // “l'acqua
che piove sia già piovuta molte volte” (Restoro d'Arezzo, 1282 (aret.); L. II, dist. 5, cap. 7 - pag.
125, riga 30)
Sembra
dunque più opportuno collocare il termine acqua,
in questo contesto, sotto la categoria “pioggia”, piuttosto che sotto quella di
“acqua” nella sezione “acque interne”.
A. L'universoàI. il cielo e l'atmosferaàb) il tempo atmosferico e i venti à Pioggia
Neve
Termine generico riferito al fenomeno atmosferico
della neve: se ne contano 17 occorrenze nell’opera dantesca sempre in senso
proprio, né del resto dallo spoglio su TLIO emergono esempi che spingano ad una
diversa interpretazione.
A. L'universo à I. il cielo e l'atmosfera à b) il
tempo atmosferico e i venti à Neve
Aere
Con le sue 56 occorrenze nell’opera dantesca,
rispetto alle sole 3 della forma aria,
aere si configura come la forma normale utilizzata da Dante per indicare l’”aria”
come elemento fisico. Il termine ricorre spesso nella descrizione dei fenomeni
atmosferici e per indicare l’”atmosfera” in senso proprio; in particolare,
nella prima cantica, accompagnata da aggettivi o altre espressioni, indica
l’atmosfera triste e opprimente dell’inferno.
Dal momento che in questo caso l’aere indica il luogo dove si manifesta il fenomeno atmosferico
della piova, sembra preferibile la collocazione sotto la categoria specifica
“atmosfera” piuttosto che sotto quella generica di “aria”, anche se la
distinzione è molto sottile.
A. L'universoàI. il cielo e l'atmosferaàb) il tempo atmosferico e i ventià Atmosfera
Terra
Se da una parte è
chiarissimo a che cosa si riferisca Dante col termine terra, dall’altra lo schema concettuale ci pone il problema di
collocare il termine sotto la categoria “terra (superficie)” oppure “terra (materia)”.
In questo contesto sembra preferibile la prima collocazione, in quanto qui terra viene ad indicare la superficie su
cui si riversano grandine, acqua e neve.
A. L'universo à II. LA TERRA à
a) La configurazione e l'aspetto à terra
(superficie)
Cerbero, fiera crudele e diversa,
con tre gole caninamente latra
sovra la gente che quivi è sommersa. 15
Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra,
e ’l ventre largo, e unghiate le mani;
graffia li spirti, ed iscoia ed isquatra. 18
Urlar li fa la pioggia
come cani;
de l’un de’ lati fanno a l’altro schermo;
volgonsi spesso i miseri profani. 21
Fiera
crudele e diversa
Il lemma fiera
conta 22 occorrenze nell’intera opera dantesca ed è usato con diverse
accezioni. In generale può indicare un qualunque tipo di animale come in If IX vv.70-72:
i rami schianta, abbatte e porta fori;
dinanzi polveroso va superbo,
e fa fuggir le fiere e li pastori.
anche se più spesso viene ad indicare animali feroci
e pericolosi come le tre fiere del canto proemiale. Le 712 occorrenze del
Corpus TLIO ci fanno notare come il termine fiera
sia collegato, la maggior parte delle volte, ad animali feroci e non
addomesticati, quasi sempre mammiferi, mentre poche sono le accezioni in cui si
indica un animale in genere, come vediamo dai seguenti contesti:
“la bocca aulitosa / più rende aulente aulore / che non fa d'una fera / c'ha nome la pantera, / che 'n India
nasce ed usa.” (Guido delle
Colonne, XIII pm. (tosc.), 2.18, pag. 99) //
“lo leone soprastà e per natura, e per potenzia universalmente a tutte fiere salvatiche o dimestiche...” (
Zucchero, Esp. Pater, XIV
in. (fior.), pag. 103.4).
In realtà, nell’Inferno dantesco, il termine è
spesso accompagnato da aggettivi quali orribil,
crudele, selvaggio per indicare esseri infernali come Gerione, Plutone e lo
stesso Cerbero.
Il termine fiera, per se stesso, andrebbe dunque probabilmente
collocato sotto la categoria “animale” o,
specificando ulteriormente, sotto quella di “selvaggio”. Tuttavia, data la
forte unità semantica dell’epiteto, non sembra infondato specificare
ulteriormente e collocare l’intero sintagma fiera
crudele e diversa sotto la categoria:
A. L'universo à I. il cielo e l'atmosfera à a) Il
cielo e i corpi celesti à Mostro
Nondimeno, dal momento che tale categoria è posta
sotto la sezione “il cielo e l’atmosfera”, sembra più utile inserire una
categoria “animale mostruoso” sotto la sezione “animali fantastici”:
A. L'universo à IV.
GLI ANIMALI à k) Gli animali fantastici àAnimale mostruoso
Gole
Il termine gola
è utilizzato da Dante per indicare la parte anteriore del collo, la sede
degli organi vocali e degli organi addetti alla deglutizione, con un
significato molto simile a quello odierno. Tuttavia con questo termine entriamo
nella discussione sulla commistione tra l’universo umano e quello bestiale in
questo canto. Delle 21 occorrenze del lemma gola
nell’opera dantesca, infatti, solo in questo caso è utilizzato per indicare
una parte di un corpo animale; nel resto delle occorrenze il termine denota la
parte del corpo umano (If XII, v.116)
oppure, per estensione, il vizio della “gola” (If VI, v.53) o ancora, per analogia, la parte più profonda di un
fosso o di una voragine (If XXIV, v.123).
Bisogna dunque chiederci se l’uso del termine gola riferito ad animali fosse possibile
oppure se Dante abbia fatto volontariamente uso di un termine umano per
descrivere Cerbero. Una breve analisi del Corpus TLIO ci toglie ogni dubbio:
già prima di Dante troviamo qualche attestazione di gola legato alla descrizione di un animale:
“[…]e passa
per lo mezzo de la gola e del mento, e tali animali sono c'hano diviso
l'osso del mento […]” (Restoro
d'Arezzo, 1282 (aret.); L. II, dist. 6, pt. 4, cap. 4 - pag. 167, riga 25)
Dunque risulta naturale la collocazione del termine
nella categoria:
A. L'universo à IV. GLI ANIMALI à
a) I quadrupedi à
1.
Generalità à
Gola
Caninamente
latra
Il sintagma non pone particolari problemi di
collocazione. Tuttavia se in italiano moderno il latrare indica un volume più
alto ed un tono più rabbioso e lamentoso del semplice abbaiare, in italiano
antico questa distinzione non sembra ancora essere del tutto codificata, visto
che i due termini compaiono nei medesimi contesti:
“onde
son detti nimici coloro che quando vogliano parlare latran come cane.” (Andrea
da Grosseto (ed. Segre), 1268 (tosc.) L. 1, cap. 3 - pag. 156, riga 4) // “la ragione di coloro che abaiano come cani e(st) da schifare”
(Trattati di Albertano volg., a.
1287-88 (pis.); De doctrina, cap. 3 - pag. 5002, riga 179)
Il sistema concettuale di Hallig e Wartburg indica
tra i versi degli animali il solo “garrire”, che certamente non si addice a
questo caso. Per cui sembra opportuno inserire il termine in una nuova
categoria posta al di sotto di “garrire”:
A. L'universo à IV.
GLI ANIMALI à a) I quadrupedi à
1.
Generalità à Latrare
Occhi
Anche riguardo a occhi
non sembrerebbero esserci particolari problemi di collocazione. Tuttavia la
categoria “occhi”, tra le parti del corpo animale, non compare. Il fatto che
compaiano invece le categorie “orecchio” e “le narici”, fa pensare ad una
semplice dimenticanza. Dunque è necessario introdurre una nuova categoria dove
collocare il termine:
A. L'universo à IV.
GLI ANIMALI à a) I quadrupedi à
1.
Generalità à Occhio
Barba
Col termine barba
dobbiamo nuovamente destreggiarci tra l’universo umano e quello ferino.
Infatti, delle 10 occorrenze del lemma nell’opera dantesca, solo in questo caso
barba descrive un elemento del volto
di un animale mentre nei restanti casi è riferito ad un personaggio umano o
comunque antropomorfo (Chirone, ad esempio, è per metà animale ma ha il volto
umano).
Dobbiamo dunque chiederci se Dante con barba intendesse riferirsi alla “barba”
dell’uomo adulto per caratterizzare umanamente il demonio Cerbero oppure se
l’uso del termine barba per indicare
la peluria sul muso degli animali fosse già in uso prima di Dante.
Il Corpus TLIO ci mostra che delle 216 occorrenze
del lemma barba in nessun caso, fatta
eccezione per il testo dantesco e i suoi commenti, il termine vada ad indicare
un elemento animale; del resto anche il Dizionario TLIO riporta come unica
occorrenza in questo senso quella dantesca.
È chiaro dunque che Dante al momento di descrivere
le tre teste ci Cerbero avesse in mente la barba propria dell’uomo adulto. Ciò
è reso ancora più evidente dall’aggettivo unta
che segue il termine e che ci fa pensare alla barba di un ingordo inzuppata
nel sugo di qualche pietanza che sta trangugiando. Perciò, dal momento che le
parti del corpo umano sono codificate nella sezione B del sistema concettuale
di Hallig e Wartburg, il termine barba resta
non collocato.
Ventre
Di ventre si contano invece 16 occorrenze
nell’opera dantesca, variamente associate ad animali o ad esseri umani.
Anche le 1855
occorrenze del Corpus TLIO ci confermano questa pluralità di usi:
“Domenedio
è con teco e benedetto 'l frutto del ventre tuo”
(Andrea da Grosseto (ed. Selmi), 1268
(tosc.); L. 1, cap. 7 - pag. 38,
riga 11) // “ adonqua pare che
quello ariete abia corna e capo e ventre, e deppo' el ventre dea venire
la groppa e la coda.” (Restoro d'Arezzo, 1282 (aret.); L. I,
cap. 7 - pag. 12, riga 10).
Per cui non vi sono problemi nel collocare il termine
sotto la categoria “ventre” che indica la parte esterna dell’addome, distinta
dal petto:
A. L'universo à IV.
GLI ANIMALI à a) I quadrupedi à
1.
Generalità à Ventre
Unghiate
mani
Questo sintagma rappresenta forse il maggior esempio
di fusione tra umano e ferino del canto: rimane dunque molto difficile da
collocare.
Se da una parte il termine mano, con la sua immensa mole di occorrenze (circa 150 nell’opera
dantesca e oltre 2500 nel Corpus TLIO), sembra essere riferito esclusivamente
ad esseri umani, dall’altra l’aggettivo unghiate
sembra designare una dimensione bestiale. Tuttavia le scarse occorrenze di
quest’ultimo termine sia nell’opera dantesca (solo una) sia nel Corpus TLIO (7
e tutte legate a questo passo) non ci permettono di approfondire la questione.
Certo è che il termine mani sia, fatta eccezione per il passo dantesco, utilizzato esclusivamente
per indicare le estremità degli arti superiori nel corpo umano. Non sembra
dunque forzato pensare che Dante immaginasse mani simili a quelle umane ma
dotate di artigli propri degli animali, dato che di esse si serve per scuoiare
e squartare i dannati.
Riguardo alla collocazione la soluzione migliore
potrebbe essere quella di sciogliere il sintagma lasciando il sostantivo mani non collocato, dato che fa riferimento all’universo umano, mentre
l’aggettivo unghiate sotto la
categoria:
A. L'universo à IV.
GLI ANIMALI à a) I quadrupedi à
1.
Generalità à
Artigli
Graffia
Il lemma graffiare
è usato esclusivamente nella prima cantica e compare soltanto 4 volte all’interno dell’opera dantesca. Le poche
occorrenze del Corpus TLIO ci indicano che il termine era utilizzato per
indicare lesioni cutanee superficiali causate spesso dalle unghie:
“l'unghie vostre
averìano graffiato mene.” (Guittone, Lettere in prosa, a. 1294 (tosc.); 19 - pag. 244, riga 10)
La
collocazione sembra dunque ovvia:
A. L'universo à IV.
GLI ANIMALI à a) I quadrupedi à
1.
Generalità à
Graffiare
Iscoia
Forma per “scuoia” con semplificazione del dittongo
-uo- e prostesi della vocale i-. Fa parte di una climax ascendente che si apre
con graffia, che indica lesioni
cutanee superficiali e si conclude con isquatra,
che indica il totale smembramento dei corpi. Unica occorrenza sia nell’opera
dantesca che nell’intero Corpus TLIO in questo caso è l’etimo ad indirizzarci
sulla giusta strada: dal latino tardo excoriĀre significa letteralmente
togliere il cuoio, la pelle. Un significato, dunque, diverso sia dal
“graffiare” che dallo “squartare”. Il sistema concettuale ci offre una categoria
ad hoc:
A. L'universo à IV.
GLI ANIMALI à a) I quadrupedi à
1.
Generalità à
Scuoiare
Isquatra
Forma con metatesi e prostesi della vocale i- per
“squartare”. Il Vocabolario TLIO ci riporta la definizione: “[Rif. a un corpo
umano o animale:] fare a pezzi, smembrare; aprire profonde e ampie ferite (con
un'arma, con graffi o morsi); dilaniare, straziare” ed anche dallo spoglio
delle 55 occorrenze del Corpus TLIO emerge la medesima estensione di
significati.
È interessante notare che il termine
risulta molto raro e che pochissime sono le attestazioni anteriori al XIV
secolo. Del resto anche nell’opera dantesca questa risulta essere l’unica
occorrenza.
Riguardo alla collocazione il sistema
concettuale di Hallig e Wartburg non sembra contenere categorie adatte a questo
termine: isquatra non può essere
collocato sotto “graffiare”, oppure “scuoiare”, senza perdere il senso della
climax. Sembra dunque opportuno inserire il termine in una nuova categoria al
di sotto di “scuoiare”:
A. L'universo à IV.
GLI ANIMALI à a) I quadrupedi à
1.
Generalità à
Squartare
Cani
Si contano soltanto 16 occorrenze del lemma cane nell’opera dantesca, di cui 9 nella
prima cantica della Commedia. Nella
maggior parte dei casi il termine è utilizzato come termine di confronto per
indicare la condizione umiliante dei dannati. Famoso il passo dell’episodio del
conte Ugolino:
Quand' ebbe detto ciò, con li occhi torti
riprese 'l teschio misero co' denti,
che furo a l' osso, come d' un can, forti. (If XXXIII, vv.76-78)
Le 597 occorrenze del lemma nel Corpus TLIO ci
dimostrano che il termine aveva il medesimo significato di quello attuale già a
partire dalla metà del XIII secolo:
“Unde
disse Salamone nei Proverbi che quel cotale è simigliante a cului che ode due cani
a ringhiare Gesù” (Andrea da Grosseto (ed. Segre), 1268 (tosc.))
Dunque la collocazione corretta è:
A. L'universo à IV.
GLI ANIMALI à a) I quadrupedi à 2. Gli animali
domestici à
Cane
Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo,
le bocche aperse e mostrocci le sanne;
non avea membro che tenesse fermo. 24
E ’l duca mio distese le sue spanne,
prese la terra, e con piene le pugna
la gittò dentro a le bramose canne. 27
Qual è quel cane ch’abbaiando agogna,
e si racqueta poi che ’l pasto morde,
ché solo a divorarlo intende e pugna, 30
cotai si fecer quelle facce lorde
de lo demonio Cerbero, che ’ntrona
l’anime sì, ch’esser vorrebber sorde. 33
Noi passavam su per l’ombre che adona
la greve pioggia, e ponavam le piante
sovra lor vanità che par persona. 36
Vermo
È il termine che offre maggiori spunti di
discussione sia a livello semantico, sia a livello metodologico, in quanto la
sua forte polisemia si scontra con la possibilità di collocarlo sotto una
categoria che ne restringerebbe forzatamente il campo semantico.
Il lemma verme
compare 6 volte nell’opera dantesca: 4 nell’Inferno e 2 nel Purgatorio. Talvolta
viene usato in senso proprio per indicare un animale di piccole dimensioni,
probabilmente un insetto, con un significato simile a quello odierno (If
XXIX, v.61); altre,
ed è questo il caso, viene usato come epiteto attribuito ad esseri infernali,
forse per mettere in evidenza il disgusto che provocano. Tuttavia una ricerca
sul Corpus TLIO riporta 120 occorrenze che ci testimoniano una vastissima gamma
di significati. In italiano antico, infatti, verme può indicare il ragno:
“Lo
verme aragn te prende con redhe insidïosa”
(Bonvesin, Volgari, XIII (mil.))
il baco da seta:
“De
laydi vermi rècipu la pretïosa seta” (Proverbia
pseudoiacoponici, XIII (abruzz.))
Ma anche qualunque insetto dannoso in generale:
“Da
vespi, da mosconi e d' altri vermi” (Mino
Dietaiuve, Sonn. Inferno, XIV m. (aret.))
Nel suo commento alla Commedia Boccaccio
estende il termine verme,
proprio in relazione al passo in questione, addirittura ad ogni
essere che abiti sotto terra:
“Pone
l'autore questo nome a Cerbero di «vermo» dal luogo dove il truova, cioè
sotterra, per ciò che i più di quegli animali, li quali sotterra stanno, sono
chiamati “vermini”” (Boccaccio, Esposizioni, 1373-74)
e in un testo di inizio Trecento troviamo il termine
esteso anche ai rettili e addirittura ai draghi:
“Vermi
che no pòno morire, zoè serpenti e dragoni oribeli da vedere e da odire”
(Elucidario, XIV (mil.))
Vermo
viene
dunque a indicare genericamente qualunque “animale non mammifero dall’aspetto
ripugnante”. Tuttavia, limitandoci al contesto, è chiaro che qui vermo non possa essere inteso in questo
senso: Cerbero non sembra affatto avere l’aspetto di un essere piccolo e
serpentiforme e, soprattutto, avendo un corpo canino, lo possiamo immaginare
come un mammifero. Da escludere sembra anche l’interpretazione del Boccaccio in
quanto molti degli esseri definiti vermi,
in italiano antico, non stanno abitualmente sotto terra.
La collocazione nello schema porta inevitabilmente
con sé una perdita di contenuto semantico. In questo caso, come in quello della
descrizione di Lucifero (If XXXIV, v.108), vermo sembra piuttosto legato alla mostruosità del guardiano
infernale e questo ci spinge ad azzardare una collocazione nella categoria:
A. L'universo à IV.
GLI ANIMALI à k) Gli animali fantastici à Animale mostruoso
Bocche
Il lemma bocca
conta 56 occorrenze nell’opera dantesca nella maggior parte delle quali è
utilizzato in senso proprio per indicare la bocca di personaggi umani oppure
demoniaci. Anche in questo caso è usato in senso proprio per denotare le tre
bocche di Cerbero e possiamo quindi ragionevolmente collocare il termine bocche nella categoria:
A. L'universo à IV.
GLI ANIMALI à a) I quadrupedi à
1.
Generalità à
Bocca
Sanne
Il lemma zanna,
nella forma sanna (pl. sanne), occorre soltanto due volte nell’opera dantesca: nel contesto in
esame e nella descrizione del diavolo Ciriatto (If XXII, vv.55-57). In italiano moderno il termine zanna indica una coppia di denti di
dimensione maggiore agli altri nella bocca degli animali e dobbiamo dunque
chiederci se anche Dante utilizzasse il termine con questo significato
specifico o, piuttosto, per indicare in generale la dentatura degli animali.
Il Corpus TLIO, con le sue 13 attestazioni, ci indirizza
verso la prima ipotesi in quanto il termine sanna
è spesso utilizzato per indicare una coppia di denti, in particolare quelli
che fuoriescono dalla bocca del maiale:
“crudele
drizzò le due sanne per quello luogo che è più prossimano alla morte”
(Simintendi, a. 1333 (tosc.); L.
8 - vol. 2, pag. 145, riga 13) // “Fiorenza giusta, il porco monacese, / che
con le fiere sanne entrò in Perugia, / divorando ciascuno a più non
posso” (Sacchetti, Rime, XIV sm. (fior.); 194, v. 128 - pag. 214 riga 6).
Un’ ulteriore conferma verso questa interpretazione ci
viene dal fatto che Dante stesso, in un altro contesto, utilizzi il termine
generico denti per indicare la
dentatura di un cane (sebbene in questo caso il cane simboleggi Malatesta il
Vecchio e Malatestino, signori di Rimini):
E 'l mastin vecchio e 'l nuovo da Verrucchio,
che fecer di Montagna il mal governo,
là dove soglion fan d' i denti succhio. (If XXVII, vv.46-48)
Sembra dunque che Dante utilizzasse il termine sanna già col significato che gli attribuiamo comunemente
oggi. Tra le parti del corpo animale, tuttavia, il sistema concettuale di
Hallig e Wartburg riporta esclusivamente la categoria “i denti” e quindi, per
non andare incontro a perdite di significato, ci troviamo di nuovo costretti ad
inserire il termine in una nuova categoria:
A. L'universo à IV.
GLI ANIMALI à a) I quadrupedi à
1.
Generalità à
Zanna
Membro
Consultando DanteSearch scopriamo che il termine membro (pl. membra/i) occorre 49 volte in tutta l’opera dantesca, sempre
con lo stesso significato ma attribuito a soggetti diversi: come parte di un corpo animale, come nell’esempio in questione; come parte di un corpo umano come nel canto dei sodomiti (If XVI,
10-11); come parte di un vegetale (ma comunque animato), come nel caso dei
suicidi (If XIII, 87-90). Al
plurale può indicare anche il corpo nella sua interezza:
Tosto che loco lì la circunscrive,
la virtù formativa raggia intorno
così e quanto ne le membra vive. (Pg XXV,
vv.88-90)
Consultando il Corpus TLIO possiamo inoltre notare
che il significato attuale di “associato ad una corporazione” non sembra ancora
essere attestato in italiano antico. È dunque chiaro che Dante utilizzi il
termine membro per indicare una
generica parte del corpo; tuttavia non esiste una categoria del genere nel
sistema concettuale: membro non è
propriamente né “corpo”, né “i muscoli”, né tantomeno “articolazione”. Per cui,
sempre per evitare riduzioni di portata semantica, sembra opportuno collocare
il termine in una nuova categoria:
A. L'universo à IV.
GLI ANIMALI à a) I quadrupedi à 1.
Generalità à
Corpo à
Parte del
Terra
È sempre la terra
del v.12 ma in questo caso è intesa come materia che viene raccolta da
Virgilio per placare Cerbero, non più come superficie su cui si abbatte la
tempesta. Anche l’Enciclopedia Dantesca Treccani cita questo passo asserendo
che il termine terra “indica il
materiale di cui è costituita la superficie terrestre”.
Se da un lato possiamo immaginare che una terra che “pute” ed è costantemente bagnata dalla
tempesta possa apparire come un “fango” o come una “melma”, dall’altra per
indicare il “fango” Dante usa più propriamente il termine fango. Anche lo spoglio del Corpus TLIO ci rivela che il termine terra,
in italiano antico, non era utilizzato per indicare il “fango”. Pertanto, senza
specificare ulteriormente, rischiando di travisare il senso del passo,
collochiamo il termine nella categoria:
A. L'universo à II. LA TERRA à
c) I terreni e la loro costituzione à Terra (Materia)
Canne
Solo 2 le occorrenze del lemma canna nell’opera dantesca, entrambe nell’Inferno, sembrano riferirsi alla gola indicandone più precisamente
la parte interna addetta alla deglutizione, l’esofago.
Nel Corpus TLIO la maggior parte delle 275 occorrenze
del lemma canna si riferisce ad un
arbusto palustre o al fusto di una pianta. Poche, ma significative, sono le
attestazioni di canna in cui il
termine viene impiegato come sinonimo di gola,
ma in contesti più limitati:
“Alisandro da lo exercito de Constantino fo appeso per la canna.” (St. de Troia e de Roma Amb.,
1252/58 (rom.>tosc.), pag. 322.21) // “Su
in questo se trasse uno, de cotello ferìo / Su in canna allo conte, dall'altro lato uscìo.”
(Buccio di Ranallo, Cronaca, c. 1362 (aquil.), quart. 965, pag. 221).
In particolare, al di là degli usi
comuni, c’è una sensibile prevalenza del termine gola per indicare la sede degli organi vocali, mentre canna prevale, soprattutto in registri
comici, per indicare le funzioni addette alla deglutizione oppure in
espressioni come “appendere per la canna” per riferirsi all’impiccagione.
Tuttavia non sembrano esserci clamorose distinzioni di significato tali da
inserire una categoria specifica per il termine canna che, quindi, verrà inserito nella medesima categoria di gola:
A. L'universo à IV. GLI ANIMALI à
a) I quadrupedi à
1.
Generalità à
Gola
Abbaiando
Prima delle sole due occorrenze del
lemma abbaiare nella Commedia dantesca. Qui indica
propriamente il verso del cane, mentre in If
VII connota dispregiativamente l’urlare degli avari e dei prodighi. Come
abbiamo visto dallo spoglio del Corpus TLIO in italiano antico non sembra
ancora esservi una distinzione netta tra latrare
e abbaiare, che vengono impiegati
come sinonimi negli stessi contesti. L’unica differenza nell’uso sembra essere
il fatto che il termine abbaiare è
utilizzato esclusivamente per indicare il verso del cane o, per analogia, per
indicare il parlare concitato e violento di esseri umani; il termine latrare, oltre a queste accezioni, può
essere utilizzato anche per indicare i suoni emessi da altri animali oltre al
cane:
“E mirando Prezzivalle, sì vide che uno grande serpente ne portava
un piccolo lioncello, e uno grande lione gli andava dietro latrando e mugghiando...” (Tavola ritonda,
XIV pm. (fior.), cap. 117, pag. 461.9)
A sostegno della sinonimia tra i due
termini nell’italiano antico troviamo esempi come:
“domandò
quel ch'ello avea, cumzosiacosaché 'l bateva cum le masselle e sovra quelle latrava,
zoè, abaiava.” (Jacopo
della Lana, Inf., 1324-28 (bologn.); c. 32, 106-114 - pag. 761, col
1, riga 4)
Dunque possiamo ragionevolmente collocare il termine
abbaiando nella medesima categoria
che avevamo creato per il termine latra:
A. L'universo à IV.
GLI ANIMALI à a) I quadrupedi à
1.
Generalità à Latrare
Divorarlo
Il lemma divorare occorre 7 volte nell’opera dantesca, sempre nel senso di
“mangiare voracemente, inghiottire”. Spesso descrive l’azione di un animale,
come in questo caso, oppure di un essere umano (Pd XXVII, v.131); soltanto in If
XXXI v.142 è usato in senso figurato in relazione al ghiaccio in cui è
conficcato il corpo di Lucifero. La collocazione non presenta dunque
particolari problemi:
A. L'universo à IV.
GLI ANIMALI à a) I quadrupedi à
1.
Generalità à Divorare
Facce
72 le occorrenze del lemma faccia nell’opera dantesca. Solo questa, tuttavia, è impiegata
nella descrizione della parte anteriore della testa di un animale per cui,
normalmente, Dante utilizza il termine muso
(9 occorrenze). Delle oltre 1000 occorrenze del lemma nel Corpus TLIO nessuna,
ad eccezione di quelle legate direttamente al testo dantesco, è associata alla
descrizione di un corpo animale e dunque non sembra in errore Fernando Salsano
quando, nella voce “faccia” dell’Enciclopedia Dantesca Treccani, scrive,
riguardo a questo passo, “faccia non è traslato per " grugno canino
", in quanto il mostro mitologico, nell'assunzione dantesca a demonio,
acquista caratteri umani, come la barba e le mani”. Il termine resterà dunque non collocato in quanto rimanda ad una
parte del corpo umano, codificata nella sezione B del sistema concettuale.
Elle giacean per terra tutte quante,
fuor d’una ch’a seder si levò, ratto
ch’ella ci vide
passarsi davante. 39
Terra
Qui il termine terra
torna ad avere il significato del v.12: quello di superficie. In
particolare qui indica la superficie dove giacciono le anime dei golosi che qui
vengono punite. La collocazione sarà dunque:
A. L'universo à II. LA TERRA à
a) La configurazione e l'aspetto à terra
(superficie)
Ma dimmi chi tu se’ che ’n sì dolente
loco
se’ messo e hai sì fatta pena,
che, s’altra è maggio,
nulla è sì spiacente». 48
Dolente
loco
Si tratta di una delle numerose perifrasi presenti
nella prima cantica della Commedia per
indicare i gironi infernali o l’inferno nella sua totalità. Qui sembra indicare
in particolare il girone dov’è punito Ciacco, ma potrebbe riferirsi anche al
regno infernale nel suo complesso.
Quale che sia la
corretta interpretazione non sembra opportuno inserire il sintagma nel sistema
concettuale. Il termine rimane dunque non
collocato.
Voi cittadini mi chiamaste Ciacco:
per la dannosa colpa de la gola,
come tu vedi, a la pioggia
mi fiacco. 54
Gola
Abbiamo già analizzato il termine gola in relazione al v.13. Tuttavia qui
viene utilizzato per estensione per indicare il peccato della gola.
Questo uso è già ben consolidato prima di Dante:
“Per iscarsezza sola / vien peccato di gola,
/ ch'om chiama ghiottornia” (Brunetto Latini, Tesoretto, a. 1274 (fior.);
v. 2816 - pag. 273, riga 2)
In questo caso il termine rimarrà dunque non collocato.
Poi appresso convien che questa caggia
infra tre soli,
e che l’altra sormonti
con la forza di tal che
testé piaggia.
69
Soli
L’uso del termine sole per indicare lo spazio di tempo di un anno solare è attestato
soltanto qui e in Pg XXI, v.101. Uno
spoglio delle oltre 600 occorrenze del lemma sole sul Corpus TLIO ci rivela che questo uso non è attestato al di
fuori di Dante.
Tuttavia, dal momento che risulta evidente che Dante
in questo contesto non voglia indicare il sole in quanto stella ma piuttosto
una scansione temporale, sembra opportuno lasciare il termine non collocato.
dimmi ove sono e fa ch’io li conosca;
ché gran disio mi stringe di savere
se ’l ciel li addolcia, o lo ’nferno li attosca». 84
Ciel
Non sembra corretto collocare il termine ciel, in questo contesto, nella
categoria “cielo”. Nell’uso in contrapposizione con “lo’nferno”, infatti, il ciel tende
ad indicare in particolar modo il regno celeste, il paradiso.
È un uso già
ben consolidato prima di Dante:
“'l nostro signore Jesu
Christo discese di celo in terra per grande força d'amore che
ebbe in della humana generatione.” (Bestiario toscano, XIII ex. (pis.),
cap. 13, pag. 34.10)
Il termine
rimane dunque non collocato.
E quelli: «Ei son tra l’anime più nere:
diverse colpe giù li grava al fondo:
se tanto scendi, là i potrai vedere. 87
Ma quando tu sarai nel dolce mondo,
priegoti ch’a la mente altrui mi rechi:
più non ti dico e più non ti rispondo». 90
Fondo
Il termine fondo
è utilizzato più volte da Dante, specialmente nella prima cantica della Commedia, per indicare una “zona bassa”
e in particolare il punto più profondo della voragine infernale.
Una ricerca sul corpus TLIO mette in evidenza che il
significato più comune del termine sia quello di “fondale marino o fluviale”,
ma anche di “punto più profondo di una depressione artificiale o naturale”:
“Gli
altri sono chiamati bufali, e dormono ne' fondi di grandi fiumi”
(Tesoro volg., XIII ex. (fior.); L.
5, cap. 44 - pag. 153, riga 14) // “rimboccalo nel fondo della detta
fossa” (Palladio volg., XIV pm.
(tosc.); L. 9, cap. 8 - pag. 227,
riga 18)
Sembra quindi opportuno inserire una nuova categoria
dove collocare questo termine:
A. L'universo à II. LA TERRA à
a) La configurazione e l'aspetto à Punto più
profondo di una depressione
Dolce
mondo
In contrapposizione con i tre regni dei defunti il
termine mondo, in questo contesto,
indica il mondo dei vivi, la terra. La collocazione più corretta potrebbe
quindi essere:
A. L'universo à I. il cielo e l'atmosfera à a) Il
cielo e i corpi celesti à Mondo
Sì trapassammo per sozza mistura
de l’ombre e de la pioggia, a passi lenti,
toccando un poco la vita futura; 102
Sozza
mistura
Solo 5 occorrenze del lemma mistura nell’opera dantesca, tutte col significato di “insieme di
cose mescolate fra loro”. Tuttavia sembra difficile anche solo tentare di
immaginare che cosa intendesse Dante con “mistura
de l’ombre e de la pioggia”, cioè una mescolanza di anime ed acqua piovana.
Forse l’immagine che ci può apparire più vicina è
quella del “fango” o del “pantano”, ma visto che questa sostanza comprende
anche le anime dei dannati e che quindi non può corrispondere a nessuna
sostanza naturale, la soluzione migliore sembra essere quella di lasciare il
termine non collocato.
Pioggia
Questa occorrenza del termine pioggia, diversamente dalle altre del canto, non lascia alcun
dubbio sulla collocazione. Qui pioggia indica
l’acqua piovana, una delle due componenti della sozza mistura. Andrà dunque collocato in:
A. L'universoàI. il cielo e l'atmosferaàb) il tempo atmosferico e i ventiàPioggia
Noi aggirammo a tondo quella strada,
parlando più assai ch’i’ non ridico;
venimmo al punto dove si digrada:
quivi trovammo Pluto, il gran nemico. 115
Punto
dove si digrada
Il sintagma viene ad indicare il punto dove comincia
la discesa verso il cerchio successivo. Intuitivamente, dunque, indica un
terreno in discesa. Senza dover necessariamente inserire una nuova categoria
“discesa”, possiamo ragionevolmente collocare il sintagma sotto la categoria
“pendio”, in quanto un terreno in pendenza può essere percorso sia in salita
che in discesa.
A. L'universo à II. LA TERRA à
a) La configurazione e l'aspetto à Pendio
1.2. Analisi dei dati ottenuti
Dei 40 termini inizialmente ritenuti opportuni per
una collocazione nella sezione A del sistema concettuale di Hallig e Wartburg,
soltanto 33 sono stati effettivamente collocati. I criteri di esclusione di
alcuni termini sono esposti nella discussione relativa al termine stesso,
tuttavia il motivo dell’esclusione è stato principalmente l’incertezza dovuta
alla commistione tra elementi umani ed elementi ferini, in particolar modo
nella descrizione del demonio Cerbero.
Infatti, nel caso in cui non ci fossero attestazioni esterne a Dante dell’uso
di un termine umano nella descrizione di un essere animale, abbiamo ritenuto
che Dante intendesse indicare con quel termine non una parte di un corpo
animale ma una parte del corpo umano inserita in un corpo animale, con tutte le
conseguenze che analizzeremo nelle conclusioni.
Dei 33 termini collocati, ben 28 occorrono nella
prima sezione del canto (vv.1-36) che, come abbiamo notato, ha una funzione
prevalentemente descrittiva. In particolare, se escludiamo i primi 6 versi di
introduzione, possiamo notare che la densità di lessico materiale in questa
sezione è quasi di un termine per verso: un dato che conferma il realismo
descrittivo rilevabile in tutta la prima cantica della Commedia.
Riguardo allo schema concettuale i termini sono così
suddivisi:
·
10 termini nella sezione I. “Il cielo e
l’atmosfera” (30%)
·
5 termini nella sezione “II. La terra” (15%)
·
18 termini nella sezione “IV. Gli
animali” (55%)
I termini appartenenti alle prime due categorie sono
per la maggior parte impiegati nella descrizione dell’ambiente del cerchio o
del regno infernale in genere; i termini della sezione “IV. Animali” sono
invece tutti impiegati nella descrizione di Cerbero. C’è dunque un sostanziale
equilibrio tra lo spazio dedicato alla descrizione dell’ambiente (nel complesso
il 45%) e quello dedicato alla descrizione del demonio (55%) . Tuttavia è
significativo il fatto che Dante dedichi tutto quello spazio alla descrizione
di un singolo personaggio.
1.2.1. Incertezze e problemi metodologici
Tralasciando le incertezze nella collocazione di
alcuni termini, che abbiamo già analizzato nelle singole discussioni,
analizzeremo qui alcuni problemi riscontrati nel metodo e nella strutturazione
stessa dello schema concettuale di Hallig e Wartburg.
·
Un primo problema lo riscontriamo al
momento di dover analizzare termini dal significato molto vicino, al limite
della sinonimia. Come abbiamo visto per latrare
e abbaiare o per gola e canna, dall’analisi delle occorrenze nei testi in italiano antico
non emergono prove sufficienti per giustificare l’inserimento dei due termini
in due categorie differenti in quanto, per la maggior parte dei casi, i loro
significati si equivalgono, sebbene esistano contesti in cui uno dei due
termini risulta preferibile all’altro. La scelta di inserire i termini in una
sola categoria o in due categorie distinte si rivela spesso soggettiva ed
eventualmente propenderemo per la seconda soluzione laddove le due categorie
esistano già nel sistema senza bisogno di doverne inserire di nuove.
·
Alcune nuove categorie sono state
inserite per non tradire la densità semantica di alcuni termini che avrebbero
potuto essere collocate nelle categorie preesistenti solo tramite una
forzatura. Alcune categorie, invece, sono state inserite per pura necessità:
sorprendente è stata l’assenza della categoria “occhi” nella sezione dedicata
alle generalità degli animali.
·
Altrettanto sorprendente è la
collocazione di alcune categorie nella struttura stessa del sistema
concettuale. Le “generalità” degli animali sono collocate nella sezione “a. i
quadrupedi” ma, in quanto “generalità”, dovrebbero pertenere ad ogni animale e
non esclusivamente ai quadrupedi. Problematica è anche la collocazione della
categoria “mostro” nella sezione “il cielo ed i corpi celesti” che ci ha
costretti ad inserire una nuova categoria “animale mostruoso” sotto la sezione
“animali fantastici”.
La creazione di nuove categorie all’interno dello
schema concettuale, indispensabile per preservare la portata semantica di
alcuni dei termini analizzati, pone tuttavia seri problemi di standardizzazione
ed implementazione. Se l’obbiettivo della ricerca è infatti quello di
implementare una codifica semantica in un corpus informatico contenente le
opere di Dante, allora l’inserzione di nuove categorie potrebbe portare ad un
appesantimento ingestibile del sistema concettuale che risulterebbe, così,
difficilmente implementabile. Tali categorie saranno poi necessariamente
sottoposte alla soggettività del
ricercatore; una soggettività che si riflette necessariamente nella
mancanza di un modello standard di ricerca.
Tuttavia bisogna anche tener presente che ci
troviamo in una fase pionieristica della ricerca: la pesantezza del sistema
potrà essere facilmente aggirata grazie ad una gerarchizzazione delle sue
categorie mentre, riguardo alla standardizzazione, sebbene le prime ricerche
debbano essere condotte per forza di cose in assenza di un modello standard,
tale modello potrà essere prodotto a partire dalle ricerche stesse, in modo che
possa essere esportato e riprodotto per ricerche future.
3. Conclusioni
Già in fase preliminare ci eravamo
accorti di quanto questo canto fosse ricco di termini legati alla materia, in
particolar modo nella sua prima sezione.
L’analisi dei singoli termini e la loro
ripartizione nelle varie sezioni dello schema concettuale di Hallig e Wartburg
ci ha permesso di confermare le ipotesi da cui eravamo partiti: nel VI canto a
prevalere sono l’area semantica fisico-meteorologica, impiegata nella
descrizione dell’ambiente del terzo cerchio e, soprattutto, l’area semantica
legata al mondo animale, impiegata nella descrizione di Cerbero.
L’analisi della prima area ci ha
permesso di comprendere un po’ meglio come sia strutturato l’ambiente dove
vengono puniti i golosi: una distesa di terra puzzolente sulla quale i dannati
giacciono costantemente flagellati da acqua, ghiaccio e neve che precipitano
inesorabilmente sul cerchio.
Tuttavia è proprio nell’analisi della
descrizione del demonio che sono emersi gli spunti di discussione più
interessanti. Già ad una prima lettura, infatti, ci eravamo accorti di come la
figura di Cerbero fosse una fusione di elementi bestiali ed elementi umani ma,
dopo l’analisi dei singoli termini, siamo in grado di specificare che cosa,
precisamente, il cane tricipite abbia di bestiale e che cosa, invece, abbia di
umano.
Come possiamo dunque immaginare il
Cerbero dantesco? Senza un’analisi di questo genere nemmeno la fervida fantasia
di Gustave Doré poteva arrivare a descriverlo in modo adeguato.
Nell’illustrazione
vediamo un Cerbero ancora classico: un cane con tre teste con un corpo
nerboruto e possente. Probabilmente, ma certo non abbiamo la pretesa di sapere
che cosa avesse nella mente, Dante immaginava Cerbero in un altro modo, un modo
che mischiasse la tradizione classica con la demonologia medievale.
Cerbero non è più un animale fantastico,
come lo era stato fino a Virgilio, ma un vero e proprio demonio. Il terrore, il
ribrezzo che provoca non sono dovuti alla sua potenza e bestialità ma a quegli
elementi umani che sul corpo canino sono innestati. Se nessuno, in italiano
antico, aveva mai utilizzato le parole facce
e barba per indicare il muso di
un cane, allora potremmo ragionevolmente pensare che nemmeno Dante volesse
indicarlo. Forse il poeta immaginava davvero che le facce di Cerbero, pur zannute e “caninamente latranti”, fossero
facce umane; facce di uomini ingordi con la barba unta e nera, come se fosse
stata appena sollevata da una qualche gustosa pietanza.
Allo stesso modo, se il termine mani non era mai stato usato per
indicare le “zampe” allora forse Dante immaginava che il suo Cerbero avesse
mani umane, dotate di bestiali artigli grazie ai quali graffiare, scuoiare e
squartare le proprie vittime. Forse l’immagine che meglio condensa, nel canto,
l’incontro tra umano e ferino.
Facce umane su un corpo canino, zanne
animali su una faccia umana; mani umane su arti di bestia, artigli animali su
mani umane. Adesso abbiamo un’immagine molto più chiara di che cosa sia
Cerbero: non più lo statuario Cerbero virgiliano che solo la Sibilla Cumana
poteva placare grazie ad una soporifera leccornia (Aen. VI 420-421), ma un Cerbero accecato dall’ingordigia, proprio
come i dannati di questo cerchio, al quale basta ingurgitare un po’ di terra
per tornare alla quiete.
In quanto demonio vero e proprio, e non
semplicemente animale fantastico, il termine Cerbero andrà dunque più correttamente inserito nella sezione B del
sistema concettuale Hallig e Wartburg.
A cura di Leonardo CANOVA
[1] Gli strumenti di cui ci avvarremo
per quest’analisi sono i principali corpora informatici dell’italiano antico:
DanteSearch per le opere dantesche; il Corpus TLIO ed il Corpus Taurinense per
le attestazioni extra-dantesche. Riguardo all’Enciclopedia Dantesca Treccani
essa costituisce senza dubbio un ottimo strumento di partenza tuttavia, dal
momento che porta necessariamente con sé un commento, andrà utilizzata in modo
critico.
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