lunedì 14 luglio 2014

Il Lessico Materiale nel VI canto dell’Inferno Dantesco - Un'idea di Cerbero


Cerbero secondo Gustave Doré



1.                  Introduzione al Canto

Il sesto canto dell’Inferno, con i suoi 115 versi, è uno dei più brevi di tutta la Commedia dantesca e può essere suddiviso sommariamente in tre parti: una prima parte, descrittiva, in cui ci viene presentato l’ambiente del terzo cerchio ed il suo custode, Cerbero (vv.1-36); una seconda, narrativa, in cui Dante incontra il goloso Ciacco che si lancia in una lunga invettiva contro Firenze e i peccati dei suoi cittadini (vv.37-93); infine una parte dottrinale in cui Virgilio spiega a Dante la condizione dei dannati dopo il giudizio universale (vv.94-115).
Dopo aver perso i sensi al termine dell’incontro con Paolo e Francesca, Dante si risveglia nel mezzo di una piova, composta da grandine, acqua tinta e neve, che percuote incessantemente i dannati che giacciono su una distesa di terra putrida e puzzolente. Loro guardiano e aguzzino è Cerbero, mostro mitologico-demoniaco sicuramente derivato dall’esempio virgiliano ma con caratteri del tutto nuovi: è una fiera mostruosa non soltanto perché tricipite ma soprattutto per quegli elementi umani (la barba, le mani, le facce) che Dante immagina inseriti sul corpo canino. Non più mostro classico ma demone medievale, Cerbero, con le barbe unte simbolo di ingordigia, vaga per il cerchio e iscoia ed isquatra i dannati.
Tra questi uno solleva la testa e riconosce Dante. È Ciacco, personaggio di una straordinaria vitalità espressiva sulla cui identità i critici spesso si sono interrogati invano. Certo è che fosse un concittadino di Dante, probabilmente della generazione precedente a quella del poeta. Se Cerbero aveva molto di umano, i dannati di questo cerchio, immersi nella terra bagnata e puzzolente, hanno molto di ferino e forse proprio in questo si spiega il contrappasso: i golosi non seppero frenare con la ragione nemmeno il più elementare degli istinti umani e, come in vita furono simili a bestie, qui lo saranno per l’eternità. La continua mescolanza di elementi umani e ferini costituirà, come vedremo, uno dei maggiori problemi nella collocazione dei termini nel sistema concettuale, nonché l’elemento più affascinante del canto.
Ciacco, personaggio caratterizzato da una ricca gestualità, si lancia quindi in un’incalzante invettiva contro i cittadini di Firenze che, scontrandosi continuamente tra di loro, dilaniano la città con infinite lotte intestine. Il tono accorato si rivela anche nella prima profezia che riguarda, seppur indirettamente, Dante stesso: l’esito di questi scontri sarà una temporanea vittoria dei guelfi bianchi (la fazione di cui faceva parte il poeta) che, dopo nemmeno tre anni, saranno definitivamente cacciati da Firenze dai neri, con terribili conseguenze per Dante stesso.
Esaurita la sua funzione Ciacco stravolge gli occhi e torna ad essere dannato tra i dannati. Virgilio, spiegando che dopo il giudizio universale la pena dei peccatori sarà ancora maggiore, scorta Dante verso il cerchio successivo.
Se a livello di narrazione la parte che ci interessa di più e sicuramente quella dell’incontro con Ciacco tuttavia, per il lavoro che ci prefiggiamo di fare, è la parte descrittiva a suscitare la nostra attenzione.
Infatti, dei 40 termini analizzati per valutarne una possibile collocazione all’interno dello schema concettuale elaborato negli anni ’60 da Hallig e Wartburg, ben 28 ricorrono in questi primi 36 versi. Questi possono essere suddivisi in due aree semantiche principali: una legata alla descrizione del territorio e del tempo atmosferico presente nel terzo cerchio; l’altra legata invece al mondo animale (ma, come vedremo, anche umano) che riguarda la descrizione del demonio Cerbero.
Dal verso 37 ci spostiamo invece in un’area semantica completamente diversa e pochissimi sono i termini appartenenti alla sezione A del nostro sistema concettuale, legati prevalentemente alla descrizione del cerchio e della pena dei dannati.
Con Ciacco siamo nell’universo delle passioni e dei peccati umani e dunque a prevalere sono termini ad essi legati. Angoscia, pena, invidia, colpa, lagrimar sono tutti termini che indicano l’atmosfera emotiva in cui Ciacco si lancia nella sua dura rampogna della città di Firenze la quale, tuttavia, resta solo sullo sfondo. Nel canto sono pochissimi i termini che rimandano alla realtà fisica cittadina: Firenze è rievocata prevalentemente attraverso i penosi vizi dei suoi cittadini, gran parte dei quali sconta le sue pene nei cerchi più profondi del regno infero.
L’asprezza dell’invettiva si riflette sull’asprezza dei termini, in particolare quelli in rima: i molti suoni dentali (li cittadin de la città partita) e le rime con suoni consonantici doppi (“Sacco-Ciacco-Fiacco”; “Stanno-Affanno-Verranno”; “Selvaggia-Caggia-Piaggia”) vanno a creare una sorta di solidarietà tra l’ambiente ostile del cerchio e la durezza delle parole di Ciacco. 
Per quanto riguarda il nostro obiettivo, tuttavia, i problemi che il canto pone sono essenzialmente due: come si configura l’ambiente del cerchio dei golosi? In che modo dobbiamo immaginare il Cerbero dantesco?
Per rispondere a queste domande dobbiamo addentrarci in un’analisi scrupolosa del lessico materiale di questo canto[1], cercando di comprendere con esattezza che cosa intendesse Dante con determinati termini. I risultati, come vedremo, saranno sorprendenti.

2.                  Il lessico materiale del VI canto

Data la mole di termini analizzati nella prima sezione del canto abbiamo deciso di riportare i vv.1-36 per intero, mentre per i termini successivi saranno riportate solamente le terzine in cui essi sono contenuti. Il testo sarà seguito da una discussione, essenziale per i casi semplici e più articolata per i casi dubbi, sugli usi antichi (danteschi e non) di ogni termine e, al termine di ognuna di esse, l’indicazione della categoria in cui il termine è stato collocato. Per chiarezza espositiva abbiamo inoltre ritenuto opportuno evidenziare, nel testo dantesco, in rosso i termini analizzati e collocati, in grassetto i termini analizzati ma che non hanno trovato una collocazione nello schema. Per i termini che nel testo si ripetono l’analisi sarà riproposta soltanto nel caso vi sia un mutamento di significato o particolarità degne di nota.
Talvolta si è scelto di analizzare i sostantivi in modo isolato, altre volte l’intero sintagma, altre ancora un semplice aggettivo, con un criterio di mera praticità di collocazione. Non sono stati analizzati, invece, i nomi propri, ma una proposta di collocazione del termine Cerbero verrà avanzata nelle conclusioni.

2.1.            Analisi dei singoli termini

Al tornar de la mente, che si chiuse
dinanzi a la pietà d’i due cognati,
che di trestizia tutto mi confuse,                                      3
novi tormenti e novi tormentati
mi veggio intorno, come ch’io mi mova
e ch’io mi volga, e come che io guati.                             6
Io sono al terzo cerchio, de la piova 
etterna, maladetta, fredda e greve;
regola e qualità mai non l’è nova.                                    9
Grandine  grossa, acqua tinta  e neve 
per l’aere  tenebroso si riversa;
pute la terra  che questo riceve.                                      12


Piova
Il termine piova, deverbale da piovere, non sembrerebbe offrire particolari problemi di collocazione. Come forma compare soltanto 3 volte in tutta l’opera dantesca: in senso proprio per indicare la pioggia, come in questo caso, oppure in senso figurato per indicare il propagarsi dello spirito divino (Pg XXX, 113) o, ancora, le lacrime del veglio di Creta da cui nasce il Flegetonte (If XIV, v.132). Le 445 occorrenze sul Corpus TLIO ci attestano che la forma era già ampiamente utilizzata prima di Dante con entrambe le valenze, sia in prosa che in poesia:

“Tre cose sono le quale cacciano l'omo dala casa, cioè lo fu(m)mo, (et) la piova che ent(r)a i(n) casa, (et) la mala moglie” (Trattati di Albertano volg., a. 1287-88 (pis.); Liber cons., cap. 3 - pag. 5006,  riga 55) // “par che nel cor mi piova / un dolce amor sì bono / ch' eo dico: «Donna, tutto vostro sono»” (Guido Cavalcanti (ed. Contini), 1270-1300 (fior.); 14, v. 11 - pag. 507,  riga 11).

Proseguendo nella lettura del canto, tuttavia, Dante ci informa che questa piova, in realtà, è composta da “grandine, acqua tinta e neve”. Ora, l’unico fenomeno atmosferico capace di concentrare acqua, ghiaccio e neve è la tempesta. È  anche vero, però, che in nessuna delle 445 occorrenze analizzate sul Corpus TLIO il termine piova è utilizzato per indicare una tempesta e che Dante stesso, nel canto precedente, aveva usato il termine tempesta per descrivere l’ambiente del cerchio dei lussuriosi (If V, v.29).
Dobbiamo quindi pensare ad un semplice criterio di variatio? Probabilmente no. Possiamo immaginare che sul terzo cerchio si abbattano grandine, pioggia e neve ma senza il carattere tempestoso che invece aveva caratterizzato il cerchio precedente. Qui manca lo stravolgimento causato dal vento: acqua, ghiaccio e neve precipitano sul terreno ordinatamente, inesorabilmente. Più propriamente, dunque, il termine andrà collocato nella categoria:

A. L'universoàI. il cielo e l'atmosferaàb) il tempo atmosferico e i ventiàPioggia

In questo senso andranno intese anche tutte le occorrenze di piova o pioggia nel resto del canto, salvo dove indicato diversamente.

Grandine
Passiamo dunque a vedere di che cos’è effettivamente composta questa “etterna piova”. Il primo dei suoi elementi è la grandine: termine che risulta di abbastanza semplice collocazione. Come lemma conta 2 occorrenze in tutta l’opera dantesca nelle forme grandine e grando (Pg XXI, 46) per indicare in senso proprio la grandine. Nel Corpus TLIO si contano 43 occorrenze del lemma grandine, tutte legate al fenomeno atmosferico della grandine. Interessante l’attestazione:

“E picciolo spazio stette ch' egli ne cominciò a scendere un' acqua pistolenziosa con una grandine grossa, con venti e con tempesta simile mai non veduta” (Boccaccio, Filocolo, 1336-38; L. 4, cap. 13 - pag. 376,  riga 38).

probabilmente una ripresa diretta dal testo dantesco da parte di Boccaccio. Ad ogni modo la collocazione è certamente:

A. L'universo àI. il cielo e l'atmosferaàb) il tempo atmosferico e i ventiàGrandine

Acqua
Indica indiscutibilmente l’elemento fisico “acqua” come dimostrano sia gli utilizzi danteschi, sia quelli a lui contemporanei. Tuttavia visto che quest’acqua fa parte, insieme alla grandine e alla neve, della “piova etterna” che flagella il terzo cerchio, probabilmente denota l’acqua che precipita e quindi, più propriamente, la pioggia. Del resto anche le oltre 7000 occorrenze del lemma acqua nel Corpus TLIO ci confermano che il termine era spesso utilizzato per indicare l’acqua piovana:

“tucte le fontane erano piene de sangue e l'acqua ke piovea da cielo era quasi lacte” (St. de Troia e de Roma Amb., 1252/58 (rom.>tosc.)) // “l'acqua che piove sia già piovuta molte volte” (Restoro d'Arezzo, 1282 (aret.); L. II, dist. 5, cap. 7 - pag. 125,  riga 30)

Sembra dunque più opportuno collocare il termine acqua, in questo contesto, sotto la categoria “pioggia”, piuttosto che sotto quella di “acqua” nella sezione “acque interne”.

A. L'universoàI. il cielo e l'atmosferaàb) il tempo atmosferico e i venti à Pioggia

Neve
Termine generico riferito al fenomeno atmosferico della neve: se ne contano 17 occorrenze nell’opera dantesca sempre in senso proprio, né del resto dallo spoglio su TLIO emergono esempi che spingano ad una diversa interpretazione.

A. L'universo à I. il cielo e l'atmosfera à b) il tempo atmosferico e i venti à Neve

Aere
Con le sue 56 occorrenze nell’opera dantesca, rispetto alle sole 3 della forma aria, aere si configura come la forma normale utilizzata da Dante per indicare l’”aria” come elemento fisico. Il termine ricorre spesso nella descrizione dei fenomeni atmosferici e per indicare l’”atmosfera” in senso proprio; in particolare, nella prima cantica, accompagnata da aggettivi o altre espressioni, indica l’atmosfera triste e opprimente dell’inferno.
Dal momento che in questo caso l’aere indica il luogo dove si manifesta il fenomeno atmosferico della piova, sembra preferibile la collocazione sotto la categoria specifica “atmosfera” piuttosto che sotto quella generica di “aria”, anche se la distinzione è molto sottile.

A. L'universoàI. il cielo e l'atmosferaàb) il tempo atmosferico e i ventià Atmosfera

Terra
Se da una parte è chiarissimo a che cosa si riferisca Dante col termine terra, dall’altra lo schema concettuale ci pone il problema di collocare il termine sotto la categoria “terra (superficie)” oppure “terra (materia)”. In questo contesto sembra preferibile la prima collocazione, in quanto qui terra viene ad indicare la superficie su cui si riversano grandine, acqua e neve.

A. L'universo à II. LA TERRA à a) La configurazione e l'aspetto à terra (superficie)


Cerbero, fiera crudele e diversa,
con tre gole caninamente latra
sovra la gente che quivi è sommersa.                               15
Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra,
e ’l ventre largo, e unghiate le mani;
graffia li spirti, ed iscoia ed isquatra.                             18
Urlar li fa la pioggia come cani;
de l’un de’ lati fanno a l’altro schermo;
volgonsi spesso i miseri profani.                                      21


Fiera crudele e diversa
Il lemma fiera conta 22 occorrenze nell’intera opera dantesca ed è usato con diverse accezioni. In generale può indicare un qualunque tipo di animale come in If IX vv.70-72:

i rami schianta, abbatte e porta fori;
dinanzi polveroso va superbo,
e fa fuggir le fiere e li pastori.

anche se più spesso viene ad indicare animali feroci e pericolosi come le tre fiere del canto proemiale. Le 712 occorrenze del Corpus TLIO ci fanno notare come il termine fiera sia collegato, la maggior parte delle volte, ad animali feroci e non addomesticati, quasi sempre mammiferi, mentre poche sono le accezioni in cui si indica un animale in genere, come vediamo dai seguenti contesti:

“la bocca aulitosa / più rende aulente aulore / che non fa d'una fera / c'ha nome la pantera, / che 'n India nasce ed usa.” (Guido delle Colonne, XIII pm. (tosc.), 2.18, pag. 99) // “lo leone soprastà e per natura, e per potenzia universalmente a tutte fiere salvatiche o dimestiche...” ( Zucchero, Esp. Pater, XIV in. (fior.), pag. 103.4).

In realtà, nell’Inferno dantesco, il termine è spesso accompagnato da aggettivi quali orribil, crudele, selvaggio per indicare esseri infernali come Gerione, Plutone e lo stesso Cerbero.
Il termine fiera, per se stesso, andrebbe dunque probabilmente collocato sotto la categoria “animale” o, specificando ulteriormente, sotto quella di “selvaggio”. Tuttavia, data la forte unità semantica dell’epiteto, non sembra infondato specificare ulteriormente e collocare l’intero sintagma fiera crudele e diversa sotto la categoria:

A. L'universo à I. il cielo e l'atmosfera à a) Il cielo e i corpi celesti à Mostro

Nondimeno, dal momento che tale categoria è posta sotto la sezione “il cielo e l’atmosfera”, sembra più utile inserire una categoria “animale mostruoso” sotto la sezione “animali fantastici”:

A. L'universo à IV. GLI ANIMALI à k) Gli animali fantastici àAnimale mostruoso

Gole
Il termine gola è utilizzato da Dante per indicare la parte anteriore del collo, la sede degli organi vocali e degli organi addetti alla deglutizione, con un significato molto simile a quello odierno. Tuttavia con questo termine entriamo nella discussione sulla commistione tra l’universo umano e quello bestiale in questo canto. Delle 21 occorrenze del lemma gola nell’opera dantesca, infatti, solo in questo caso è utilizzato per indicare una parte di un corpo animale; nel resto delle occorrenze il termine denota la parte del corpo umano (If XII, v.116) oppure, per estensione, il vizio della “gola” (If VI, v.53) o ancora, per analogia, la parte più profonda di un fosso o di una voragine (If XXIV, v.123).
Bisogna dunque chiederci se l’uso del termine gola riferito ad animali fosse possibile oppure se Dante abbia fatto volontariamente uso di un termine umano per descrivere Cerbero. Una breve analisi del Corpus TLIO ci toglie ogni dubbio: già prima di Dante troviamo qualche attestazione di gola legato alla descrizione di un animale:

“[…]e passa per lo mezzo de la gola e del mento, e tali animali sono c'hano diviso l'osso del mento […]” (Restoro d'Arezzo, 1282 (aret.); L. II, dist. 6, pt. 4, cap. 4 - pag. 167,  riga 25)

Dunque risulta naturale la collocazione del termine nella categoria:

A. L'universo à IV. GLI ANIMALI à a) I quadrupedi à 1. Generalità à Gola

Caninamente latra
Il sintagma non pone particolari problemi di collocazione. Tuttavia se in italiano moderno il latrare indica un volume più alto ed un tono più rabbioso e lamentoso del semplice abbaiare, in italiano antico questa distinzione non sembra ancora essere del tutto codificata, visto che i due termini compaiono nei medesimi contesti:

“onde son detti nimici coloro che quando vogliano parlare latran come cane.”  (Andrea da Grosseto (ed. Segre), 1268 (tosc.) L. 1, cap. 3 - pag. 156,  riga 4) // “la ragione di coloro che abaiano come cani e(st) da schifare” (Trattati di Albertano volg., a. 1287-88 (pis.); De doctrina, cap. 3 - pag. 5002,  riga 179)

Il sistema concettuale di Hallig e Wartburg indica tra i versi degli animali il solo “garrire”, che certamente non si addice a questo caso. Per cui sembra opportuno inserire il termine in una nuova categoria posta al di sotto di “garrire”:

A. L'universo à IV. GLI ANIMALI à a) I quadrupedi à 1. Generalità à Latrare

Occhi
Anche riguardo a occhi non sembrerebbero esserci particolari problemi di collocazione. Tuttavia la categoria “occhi”, tra le parti del corpo animale, non compare. Il fatto che compaiano invece le categorie “orecchio” e “le narici”, fa pensare ad una semplice dimenticanza. Dunque è necessario introdurre una nuova categoria dove collocare il termine:

A. L'universo à IV. GLI ANIMALI à a) I quadrupedi à 1. Generalità à Occhio

Barba
Col termine barba dobbiamo nuovamente destreggiarci tra l’universo umano e quello ferino. Infatti, delle 10 occorrenze del lemma nell’opera dantesca, solo in questo caso barba descrive un elemento del volto di un animale mentre nei restanti casi è riferito ad un personaggio umano o comunque antropomorfo (Chirone, ad esempio, è per metà animale ma ha il volto umano).
Dobbiamo dunque chiederci se Dante con barba intendesse riferirsi alla “barba” dell’uomo adulto per caratterizzare umanamente il demonio Cerbero oppure se l’uso del termine barba per indicare la peluria sul muso degli animali fosse già in uso prima di Dante.
Il Corpus TLIO ci mostra che delle 216 occorrenze del lemma barba in nessun caso, fatta eccezione per il testo dantesco e i suoi commenti, il termine vada ad indicare un elemento animale; del resto anche il Dizionario TLIO riporta come unica occorrenza in questo senso quella dantesca.
È chiaro dunque che Dante al momento di descrivere le tre teste ci Cerbero avesse in mente la barba propria dell’uomo adulto. Ciò è reso ancora più evidente dall’aggettivo unta che segue il termine e che ci fa pensare alla barba di un ingordo inzuppata nel sugo di qualche pietanza che sta trangugiando. Perciò, dal momento che le parti del corpo umano sono codificate nella sezione B del sistema concettuale di Hallig e Wartburg, il termine barba resta non collocato.

Ventre
Di ventre si contano invece 16 occorrenze nell’opera dantesca, variamente associate ad animali o ad esseri umani.
Anche le 1855 occorrenze del Corpus TLIO ci confermano questa pluralità di usi:

“Domenedio è con teco e benedetto 'l frutto del ventre tuo” (Andrea da Grosseto (ed. Selmi), 1268 (tosc.); L. 1, cap. 7 - pag. 38,  riga 11) // “ adonqua pare che quello ariete abia corna e capo e ventre, e deppo' el ventre dea venire la groppa e la coda.”  (Restoro d'Arezzo, 1282 (aret.); L. I, cap. 7 - pag. 12,  riga 10).

Per cui non vi sono problemi nel collocare il termine sotto la categoria “ventre” che indica la parte esterna dell’addome, distinta dal petto:

A. L'universo à IV. GLI ANIMALI à a) I quadrupedi à 1. Generalità à Ventre

Unghiate mani
Questo sintagma rappresenta forse il maggior esempio di fusione tra umano e ferino del canto: rimane dunque molto difficile da collocare.
Se da una parte il termine mano, con la sua immensa mole di occorrenze (circa 150 nell’opera dantesca e oltre 2500 nel Corpus TLIO), sembra essere riferito esclusivamente ad esseri umani, dall’altra l’aggettivo unghiate sembra designare una dimensione bestiale. Tuttavia le scarse occorrenze di quest’ultimo termine sia nell’opera dantesca (solo una) sia nel Corpus TLIO (7 e tutte legate a questo passo) non ci permettono di approfondire la questione.
Certo è che il termine mani sia, fatta eccezione per il passo dantesco, utilizzato esclusivamente per indicare le estremità degli arti superiori nel corpo umano. Non sembra dunque forzato pensare che Dante immaginasse mani simili a quelle umane ma dotate di artigli propri degli animali, dato che di esse si serve per scuoiare e squartare i dannati.
Riguardo alla collocazione la soluzione migliore potrebbe essere quella di sciogliere il sintagma lasciando il sostantivo mani non collocato, dato che fa riferimento all’universo umano, mentre l’aggettivo unghiate sotto la categoria:

A. L'universo à IV. GLI ANIMALI à a) I quadrupedi à 1. Generalità à Artigli

Graffia
Il lemma graffiare è usato esclusivamente nella prima cantica e compare soltanto 4 volte all’interno dell’opera dantesca. Le poche occorrenze del Corpus TLIO ci indicano che il termine era utilizzato per indicare lesioni cutanee superficiali causate spesso dalle unghie:

“l'unghie vostre averìano graffiato mene.” (Guittone, Lettere in prosa, a. 1294 (tosc.); 19 - pag. 244,  riga 10)

La collocazione sembra dunque ovvia:

A. L'universo à IV. GLI ANIMALI à a) I quadrupedi à 1. Generalità à Graffiare

Iscoia
Forma per “scuoia” con semplificazione del dittongo -uo- e prostesi della vocale i-. Fa parte di una climax ascendente che si apre con graffia, che indica lesioni cutanee superficiali e si conclude con isquatra, che indica il totale smembramento dei corpi. Unica occorrenza sia nell’opera dantesca che nell’intero Corpus TLIO in questo caso è l’etimo ad indirizzarci sulla giusta strada: dal latino tardo excoriĀre significa letteralmente togliere il cuoio, la pelle. Un significato, dunque, diverso sia dal “graffiare” che dallo “squartare”. Il sistema concettuale ci offre una categoria ad hoc:

A. L'universo à IV. GLI ANIMALI à a) I quadrupedi à 1. Generalità à Scuoiare

Isquatra
Forma con metatesi e prostesi della vocale i- per “squartare”. Il Vocabolario TLIO ci riporta la definizione: “[Rif. a un corpo umano o animale:] fare a pezzi, smembrare; aprire profonde e ampie ferite (con un'arma, con graffi o morsi); dilaniare, straziare” ed anche dallo spoglio delle 55 occorrenze del Corpus TLIO emerge la medesima estensione di significati.
È interessante notare che il termine risulta molto raro e che pochissime sono le attestazioni anteriori al XIV secolo. Del resto anche nell’opera dantesca questa risulta essere l’unica occorrenza.
Riguardo alla collocazione il sistema concettuale di Hallig e Wartburg non sembra contenere categorie adatte a questo termine: isquatra non può essere collocato sotto “graffiare”, oppure “scuoiare”, senza perdere il senso della climax. Sembra dunque opportuno inserire il termine in una nuova categoria al di sotto di “scuoiare”:

A. L'universo à IV. GLI ANIMALI à a) I quadrupedi à 1. Generalità à Squartare

Cani
Si contano soltanto 16 occorrenze del lemma cane nell’opera dantesca, di cui 9 nella prima cantica della Commedia. Nella maggior parte dei casi il termine è utilizzato come termine di confronto per indicare la condizione umiliante dei dannati. Famoso il passo dell’episodio del conte Ugolino:

Quand' ebbe detto ciò, con li occhi torti
riprese 'l teschio misero co' denti,
che furo a l' osso, come d' un can, forti.        (If  XXXIII, vv.76-78)

Le 597 occorrenze del lemma nel Corpus TLIO ci dimostrano che il termine aveva il medesimo significato di quello attuale già a partire dalla metà del XIII secolo:

“Unde disse Salamone nei Proverbi che quel cotale è simigliante a cului che ode due cani a ringhiare Gesù” (Andrea da Grosseto (ed. Segre), 1268 (tosc.))

Dunque la collocazione corretta è:

A. L'universo à IV. GLI ANIMALI à a) I quadrupedi à 2. Gli animali domestici à Cane



Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo,
le bocche aperse e mostrocci le sanne;
non avea membro che tenesse fermo.                         24

E ’l duca mio distese le sue spanne,
prese la terra, e con piene le pugna
la gittò dentro a le bramose canne.                               27

Qual è quel cane ch’abbaiando agogna,
e si racqueta poi che ’l pasto morde,
ché solo a divorarlo intende e pugna,                           30

cotai si fecer quelle facce lorde
de lo demonio Cerbero, che ’ntrona
l’anime sì, ch’esser vorrebber sorde.                            33

Noi passavam su per l’ombre che adona
la greve pioggia, e ponavam le piante
sovra lor vanità che par persona.                                   36


Vermo
È il termine che offre maggiori spunti di discussione sia a livello semantico, sia a livello metodologico, in quanto la sua forte polisemia si scontra con la possibilità di collocarlo sotto una categoria che ne restringerebbe forzatamente il campo semantico.
Il lemma verme compare 6 volte nell’opera dantesca: 4 nell’Inferno e 2 nel Purgatorio. Talvolta viene usato in senso proprio per indicare un animale di piccole dimensioni, probabilmente un insetto, con un significato simile a quello odierno (If XXIX, v.61); altre, ed è questo il caso, viene usato come epiteto attribuito ad esseri infernali, forse per mettere in evidenza il disgusto che provocano. Tuttavia una ricerca sul Corpus TLIO riporta 120 occorrenze che ci testimoniano una vastissima gamma di significati. In italiano antico, infatti, verme può indicare il ragno:

“Lo verme aragn te prende con redhe insidïosa” (Bonvesin, Volgari, XIII (mil.))

il baco da seta:

“De laydi vermi rècipu la pretïosa seta” (Proverbia pseudoiacoponici, XIII (abruzz.))

Ma anche qualunque insetto dannoso in generale:

“Da vespi, da mosconi e d' altri vermi (Mino Dietaiuve, Sonn. Inferno, XIV m. (aret.))

Nel suo commento alla Commedia Boccaccio estende il termine verme, proprio in relazione al passo in questione, addirittura ad ogni essere che abiti sotto terra:

“Pone l'autore questo nome a Cerbero di «vermo» dal luogo dove il truova, cioè sotterra, per ciò che i più di quegli animali, li quali sotterra stanno, sono chiamati “vermini”” (Boccaccio, Esposizioni, 1373-74)

e in un testo di inizio Trecento troviamo il termine esteso anche ai rettili e addirittura ai draghi:

“Vermi che no pòno morire, zoè serpenti e dragoni oribeli da vedere e da odire” (Elucidario, XIV (mil.))

Vermo viene dunque a indicare genericamente qualunque “animale non mammifero dall’aspetto ripugnante”. Tuttavia, limitandoci al contesto, è chiaro che qui vermo non possa essere inteso in questo senso: Cerbero non sembra affatto avere l’aspetto di un essere piccolo e serpentiforme e, soprattutto, avendo un corpo canino, lo possiamo immaginare come un mammifero. Da escludere sembra anche l’interpretazione del Boccaccio in quanto molti degli esseri definiti vermi, in italiano antico, non stanno abitualmente sotto terra.
La collocazione nello schema porta inevitabilmente con sé una perdita di contenuto semantico. In questo caso, come in quello della descrizione di Lucifero (If  XXXIV, v.108), vermo sembra piuttosto legato alla mostruosità del guardiano infernale e questo ci spinge ad azzardare una collocazione nella categoria:

A. L'universo à IV. GLI ANIMALI à k) Gli animali fantastici à Animale mostruoso

Bocche
Il lemma bocca conta 56 occorrenze nell’opera dantesca nella maggior parte delle quali è utilizzato in senso proprio per indicare la bocca di personaggi umani oppure demoniaci. Anche in questo caso è usato in senso proprio per denotare le tre bocche di Cerbero e possiamo quindi ragionevolmente collocare il termine bocche nella categoria:

A. L'universo à IV. GLI ANIMALI à a) I quadrupedi à 1. Generalità à Bocca

Sanne
Il lemma zanna, nella forma sanna (pl. sanne), occorre soltanto due volte nell’opera dantesca: nel contesto in esame e nella descrizione del diavolo Ciriatto (If XXII, vv.55-57). In italiano moderno il termine zanna indica una coppia di denti di dimensione maggiore agli altri nella bocca degli animali e dobbiamo dunque chiederci se anche Dante utilizzasse il termine con questo significato specifico o, piuttosto, per indicare in generale la dentatura degli animali.
Il Corpus TLIO, con le sue 13 attestazioni, ci indirizza verso la prima ipotesi in quanto il termine sanna è spesso utilizzato per indicare una coppia di denti, in particolare quelli che fuoriescono dalla bocca del maiale:

“crudele drizzò le due sanne per quello luogo che è più prossimano alla morte” (Simintendi, a. 1333 (tosc.); L. 8 - vol. 2, pag. 145,  riga 13) // “Fiorenza giusta, il porco monacese, / che con le fiere sanne entrò in Perugia, / divorando ciascuno a più non posso”  (Sacchetti, Rime, XIV sm. (fior.); 194, v. 128 - pag. 214 riga 6).

Un’ ulteriore conferma verso questa interpretazione ci viene dal fatto che Dante stesso, in un altro contesto, utilizzi il termine generico denti per indicare la dentatura di un cane (sebbene in questo caso il cane simboleggi Malatesta il Vecchio e Malatestino, signori di Rimini):

E 'l mastin vecchio e 'l nuovo da Verrucchio,
che fecer di Montagna il mal governo,
là dove soglion fan d' i denti succhio.                            (If  XXVII, vv.46-48)

Sembra dunque che Dante utilizzasse il termine sanna  già col significato che gli attribuiamo comunemente oggi. Tra le parti del corpo animale, tuttavia, il sistema concettuale di Hallig e Wartburg riporta esclusivamente la categoria “i denti” e quindi, per non andare incontro a perdite di significato, ci troviamo di nuovo costretti ad inserire il termine in una nuova categoria:

A. L'universo à IV. GLI ANIMALI à a) I quadrupedi à 1. Generalità à Zanna

Membro
Consultando DanteSearch scopriamo che il termine membro (pl. membra/i) occorre 49 volte in tutta l’opera dantesca, sempre con lo stesso significato ma attribuito a soggetti diversi: come parte di un corpo animale, come nell’esempio in questione; come parte di un corpo umano come nel canto dei sodomiti (If XVI, 10-11); come parte di un vegetale (ma comunque animato), come nel caso dei suicidi (If XIII, 87-90). Al plurale può indicare anche il corpo nella sua interezza:

Tosto che loco lì la circunscrive,
la virtù formativa raggia intorno
così e quanto ne le membra vive.                    (Pg XXV, vv.88-90)

Consultando il Corpus TLIO possiamo inoltre notare che il significato attuale di “associato ad una corporazione” non sembra ancora essere attestato in italiano antico. È dunque chiaro che Dante utilizzi il termine membro per indicare una generica parte del corpo; tuttavia non esiste una categoria del genere nel sistema concettuale: membro non è propriamente né “corpo”, né “i muscoli”, né tantomeno “articolazione”. Per cui, sempre per evitare riduzioni di portata semantica, sembra opportuno collocare il termine in una nuova categoria:

A. L'universo à IV. GLI ANIMALI à a) I quadrupedi à 1. Generalità à Corpo à Parte del

Terra
È sempre la terra del v.12 ma in questo caso è intesa come materia che viene raccolta da Virgilio per placare Cerbero, non più come superficie su cui si abbatte la tempesta. Anche l’Enciclopedia Dantesca Treccani cita questo passo asserendo che il termine terra “indica il materiale di cui è costituita la superficie terrestre”.
Se da un lato possiamo immaginare che una terra che “pute” ed è costantemente bagnata dalla tempesta possa apparire come un “fango” o come una “melma”, dall’altra per indicare il “fango” Dante usa più propriamente il termine fango. Anche lo spoglio del Corpus TLIO ci rivela che il termine terra, in italiano antico, non era utilizzato per indicare il “fango”. Pertanto, senza specificare ulteriormente, rischiando di travisare il senso del passo, collochiamo il termine nella categoria:

A. L'universo à II. LA TERRA à c) I terreni e la loro costituzione à Terra (Materia)

Canne
Solo 2 le occorrenze del lemma canna nell’opera dantesca, entrambe nell’Inferno, sembrano riferirsi alla gola indicandone più precisamente la parte interna addetta alla deglutizione, l’esofago.
Nel Corpus TLIO la maggior parte delle 275 occorrenze del lemma canna si riferisce ad un arbusto palustre o al fusto di una pianta. Poche, ma significative, sono le attestazioni di canna in cui il termine viene impiegato come sinonimo di gola, ma in contesti più limitati:

“Alisandro da lo exercito de Constantino fo appeso per la canna.” (St. de Troia e de Roma Amb., 1252/58 (rom.>tosc.), pag. 322.21) // “Su in questo se trasse uno, de cotello ferìo / Su in canna allo conte, dall'altro lato uscìo.” (Buccio di Ranallo, Cronaca, c. 1362 (aquil.), quart. 965, pag. 221).

In particolare, al di là degli usi comuni, c’è una sensibile prevalenza del termine gola per indicare la sede degli organi vocali, mentre canna prevale, soprattutto in registri comici, per indicare le funzioni addette alla deglutizione oppure in espressioni come “appendere per la canna” per riferirsi all’impiccagione. Tuttavia non sembrano esserci clamorose distinzioni di significato tali da inserire una categoria specifica per il termine canna che, quindi, verrà inserito nella medesima categoria di gola:

A. L'universo à IV. GLI ANIMALI à a) I quadrupedi à 1. Generalità à Gola

Abbaiando
Prima delle sole due occorrenze del lemma abbaiare nella Commedia dantesca. Qui indica propriamente il verso del cane, mentre in If VII connota dispregiativamente l’urlare degli avari e dei prodighi. Come abbiamo visto dallo spoglio del Corpus TLIO in italiano antico non sembra ancora esservi una distinzione netta tra latrare e abbaiare, che vengono impiegati come sinonimi negli stessi contesti. L’unica differenza nell’uso sembra essere il fatto che il termine abbaiare è utilizzato esclusivamente per indicare il verso del cane o, per analogia, per indicare il parlare concitato e violento di esseri umani; il termine latrare, oltre a queste accezioni, può essere utilizzato anche per indicare i suoni emessi da altri animali oltre al cane:

“E mirando Prezzivalle, sì vide che uno grande serpente ne portava un piccolo lioncello, e uno grande lione gli andava dietro latrando e mugghiando...” (Tavola ritonda, XIV pm. (fior.), cap. 117, pag. 461.9)

A sostegno della sinonimia tra i due termini nell’italiano antico troviamo esempi come:

“domandò quel ch'ello avea, cumzosiacosaché 'l bateva cum le masselle e sovra quelle latrava, zoè, abaiava.”  (Jacopo della Lana, Inf., 1324-28 (bologn.); c. 32, 106-114 - pag. 761, col 1,  riga 4)

Dunque possiamo ragionevolmente collocare il termine abbaiando nella medesima categoria che avevamo creato per il termine latra:

A. L'universo à IV. GLI ANIMALI à a) I quadrupedi à 1. Generalità à Latrare

Divorarlo
Il lemma divorare occorre 7 volte nell’opera dantesca, sempre nel senso di “mangiare voracemente, inghiottire”. Spesso descrive l’azione di un animale, come in questo caso, oppure di un essere umano (Pd XXVII, v.131); soltanto in If XXXI v.142 è usato in senso figurato in relazione al ghiaccio in cui è conficcato il corpo di Lucifero. La collocazione non presenta dunque particolari problemi:

A. L'universo à IV. GLI ANIMALI à a) I quadrupedi à 1. Generalità à Divorare

Facce
72 le occorrenze del lemma faccia nell’opera dantesca. Solo questa, tuttavia, è impiegata nella descrizione della parte anteriore della testa di un animale per cui, normalmente, Dante utilizza il termine muso (9 occorrenze). Delle oltre 1000 occorrenze del lemma nel Corpus TLIO nessuna, ad eccezione di quelle legate direttamente al testo dantesco, è associata alla descrizione di un corpo animale e dunque non sembra in errore Fernando Salsano quando, nella voce “faccia” dell’Enciclopedia Dantesca Treccani, scrive, riguardo a questo passo, “faccia non è traslato per " grugno canino ", in quanto il mostro mitologico, nell'assunzione dantesca a demonio, acquista caratteri umani, come la barba e le mani”. Il termine resterà dunque non collocato in quanto rimanda ad una parte del corpo umano, codificata nella sezione B del sistema concettuale.


Elle giacean per terra tutte quante,
fuor d’una ch’a seder si levò, ratto
ch’ella ci vide passarsi davante.                                     39


Terra
Qui il termine terra torna ad avere il significato del v.12: quello di superficie. In particolare qui indica la superficie dove giacciono le anime dei golosi che qui vengono punite. La collocazione sarà dunque:

A. L'universo à II. LA TERRA à a) La configurazione e l'aspetto à terra (superficie)


Ma dimmi chi tu se’ che ’n sì dolente
loco se’ messo e hai sì fatta pena,
che, s’altra è maggio, nulla è sì spiacente».                 48


Dolente loco
Si tratta di una delle numerose perifrasi presenti nella prima cantica della Commedia per indicare i gironi infernali o l’inferno nella sua totalità. Qui sembra indicare in particolare il girone dov’è punito Ciacco, ma potrebbe riferirsi anche al regno infernale nel suo complesso.
Quale che sia la corretta interpretazione non sembra opportuno inserire il sintagma nel sistema concettuale. Il termine rimane dunque non collocato.


Voi cittadini mi chiamaste Ciacco:
per la dannosa colpa de la gola,
come tu vedi, a la pioggia mi fiacco.                             54


Gola
Abbiamo già analizzato il termine gola in relazione al v.13. Tuttavia qui viene utilizzato per estensione per indicare il peccato della gola.
Questo uso è già ben consolidato prima di Dante:

 “Per iscarsezza sola / vien peccato di gola, / ch'om chiama ghiottornia” (Brunetto Latini, Tesoretto, a. 1274 (fior.); v. 2816 - pag. 273,  riga 2)

In questo caso il termine rimarrà dunque non collocato.


Poi appresso convien che questa caggia
infra tre soli, e che l’altra sormonti
con la forza di tal che testé piaggia.                               69


Soli
L’uso del termine sole per indicare lo spazio di tempo di un anno solare è attestato soltanto qui e in Pg XXI, v.101. Uno spoglio delle oltre 600 occorrenze del lemma sole sul Corpus TLIO ci rivela che questo uso non è attestato al di fuori di Dante.
Tuttavia, dal momento che risulta evidente che Dante in questo contesto non voglia indicare il sole in quanto stella ma piuttosto una scansione temporale, sembra opportuno lasciare il termine non collocato.


dimmi ove sono e fa ch’io li conosca;
ché gran disio mi stringe di savere
se ’l ciel li addolcia, o lo ’nferno li attosca».                 84


Ciel
Non sembra corretto collocare il termine ciel, in questo contesto, nella categoria “cielo”. Nell’uso in contrapposizione con “lo’nferno”, infatti, il ciel tende ad indicare in particolar modo il regno celeste, il paradiso.
È un uso  già ben consolidato prima di Dante:

 “'l nostro signore Jesu Christo discese di celo in terra per grande força d'amore che ebbe in della humana generatione.” (Bestiario toscano, XIII ex. (pis.), cap. 13, pag. 34.10)

Il termine rimane dunque non collocato.


E quelli: «Ei son tra l’anime più nere:
diverse colpe giù li grava al fondo:
se tanto scendi, là i potrai vedere.                                  87

Ma quando tu sarai nel dolce mondo,
priegoti ch’a la mente altrui mi rechi:
più non ti dico e più non ti rispondo».                            90


Fondo
Il termine fondo è utilizzato più volte da Dante, specialmente nella prima cantica della Commedia, per indicare una “zona bassa” e in particolare il punto più profondo della voragine infernale.
Una ricerca sul corpus TLIO mette in evidenza che il significato più comune del termine sia quello di “fondale marino o fluviale”, ma anche di “punto più profondo di una depressione artificiale o naturale”:

“Gli altri sono chiamati bufali, e dormono ne' fondi di grandi fiumi” (Tesoro volg., XIII ex. (fior.); L. 5, cap. 44 - pag. 153,  riga 14) // “rimboccalo nel fondo della detta fossa” (Palladio volg., XIV pm. (tosc.); L. 9, cap. 8 - pag. 227,  riga 18)

Sembra quindi opportuno inserire una nuova categoria dove collocare questo termine:

A. L'universo à II. LA TERRA à a) La configurazione e l'aspetto à Punto più profondo di una depressione

Dolce mondo
In contrapposizione con i tre regni dei defunti il termine mondo, in questo contesto, indica il mondo dei vivi, la terra. La collocazione più corretta potrebbe quindi essere:

A. L'universo à I. il cielo e l'atmosfera à a) Il cielo e i corpi celesti à Mondo


Sì trapassammo per sozza mistura
de l’ombre e de la pioggia, a passi lenti,
toccando un poco la vita futura;                                     102


Sozza mistura
Solo 5 occorrenze del lemma mistura nell’opera dantesca, tutte col significato di “insieme di cose mescolate fra loro”. Tuttavia sembra difficile anche solo tentare di immaginare che cosa intendesse Dante con “mistura de l’ombre e de la pioggia”, cioè una mescolanza di anime ed acqua piovana.
Forse l’immagine che ci può apparire più vicina è quella del “fango” o del “pantano”, ma visto che questa sostanza comprende anche le anime dei dannati e che quindi non può corrispondere a nessuna sostanza naturale, la soluzione migliore sembra essere quella di lasciare il termine non collocato.

Pioggia
Questa occorrenza del termine pioggia, diversamente dalle altre del canto, non lascia alcun dubbio sulla collocazione. Qui pioggia indica l’acqua piovana, una delle due componenti della sozza mistura. Andrà dunque collocato in:

A. L'universoàI. il cielo e l'atmosferaàb) il tempo atmosferico e i ventiàPioggia


Noi aggirammo a tondo quella strada,
parlando più assai ch’i’ non ridico;
venimmo al punto dove si digrada:

quivi trovammo Pluto, il gran nemico.                          115


Punto dove si digrada
Il sintagma viene ad indicare il punto dove comincia la discesa verso il cerchio successivo. Intuitivamente, dunque, indica un terreno in discesa. Senza dover necessariamente inserire una nuova categoria “discesa”, possiamo ragionevolmente collocare il sintagma sotto la categoria “pendio”, in quanto un terreno in pendenza può essere percorso sia in salita che in discesa.

A. L'universo à II. LA TERRA à a) La configurazione e l'aspetto à Pendio

1.2.            Analisi dei dati ottenuti

Dei 40 termini inizialmente ritenuti opportuni per una collocazione nella sezione A del sistema concettuale di Hallig e Wartburg, soltanto 33 sono stati effettivamente collocati. I criteri di esclusione di alcuni termini sono esposti nella discussione relativa al termine stesso, tuttavia il motivo dell’esclusione è stato principalmente l’incertezza dovuta alla commistione tra elementi umani ed elementi ferini, in particolar modo nella descrizione del demonio Cerbero. Infatti, nel caso in cui non ci fossero attestazioni esterne a Dante dell’uso di un termine umano nella descrizione di un essere animale, abbiamo ritenuto che Dante intendesse indicare con quel termine non una parte di un corpo animale ma una parte del corpo umano inserita in un corpo animale, con tutte le conseguenze che analizzeremo nelle conclusioni.
Dei 33 termini collocati, ben 28 occorrono nella prima sezione del canto (vv.1-36) che, come abbiamo notato, ha una funzione prevalentemente descrittiva. In particolare, se escludiamo i primi 6 versi di introduzione, possiamo notare che la densità di lessico materiale in questa sezione è quasi di un termine per verso: un dato che conferma il realismo descrittivo rilevabile in tutta la prima cantica della Commedia.
Riguardo allo schema concettuale i termini sono così suddivisi:
·         10 termini nella sezione I. “Il cielo e l’atmosfera” (30%)
·         5 termini nella sezione “II. La terra” (15%)
·         18 termini nella sezione “IV. Gli animali” (55%)
I termini appartenenti alle prime due categorie sono per la maggior parte impiegati nella descrizione dell’ambiente del cerchio o del regno infernale in genere; i termini della sezione “IV. Animali” sono invece tutti impiegati nella descrizione di Cerbero. C’è dunque un sostanziale equilibrio tra lo spazio dedicato alla descrizione dell’ambiente (nel complesso il 45%) e quello dedicato alla descrizione del demonio (55%) . Tuttavia è significativo il fatto che Dante dedichi tutto quello spazio alla descrizione di un singolo personaggio.

1.2.1.      Incertezze e problemi metodologici

Tralasciando le incertezze nella collocazione di alcuni termini, che abbiamo già analizzato nelle singole discussioni, analizzeremo qui alcuni problemi riscontrati nel metodo e nella strutturazione stessa dello schema concettuale di Hallig e Wartburg.
·         Un primo problema lo riscontriamo al momento di dover analizzare termini dal significato molto vicino, al limite della sinonimia. Come abbiamo visto per latrare e abbaiare o per gola e canna, dall’analisi delle occorrenze nei testi in italiano antico non emergono prove sufficienti per giustificare l’inserimento dei due termini in due categorie differenti in quanto, per la maggior parte dei casi, i loro significati si equivalgono, sebbene esistano contesti in cui uno dei due termini risulta preferibile all’altro. La scelta di inserire i termini in una sola categoria o in due categorie distinte si rivela spesso soggettiva ed eventualmente propenderemo per la seconda soluzione laddove le due categorie esistano già nel sistema senza bisogno di doverne inserire di nuove.
·         Alcune nuove categorie sono state inserite per non tradire la densità semantica di alcuni termini che avrebbero potuto essere collocate nelle categorie preesistenti solo tramite una forzatura. Alcune categorie, invece, sono state inserite per pura necessità: sorprendente è stata l’assenza della categoria “occhi” nella sezione dedicata alle generalità degli animali.
·         Altrettanto sorprendente è la collocazione di alcune categorie nella struttura stessa del sistema concettuale. Le “generalità” degli animali sono collocate nella sezione “a. i quadrupedi” ma, in quanto “generalità”, dovrebbero pertenere ad ogni animale e non esclusivamente ai quadrupedi. Problematica è anche la collocazione della categoria “mostro” nella sezione “il cielo ed i corpi celesti” che ci ha costretti ad inserire una nuova categoria “animale mostruoso” sotto la sezione “animali fantastici”.
La creazione di nuove categorie all’interno dello schema concettuale, indispensabile per preservare la portata semantica di alcuni dei termini analizzati, pone tuttavia seri problemi di standardizzazione ed implementazione. Se l’obbiettivo della ricerca è infatti quello di implementare una codifica semantica in un corpus informatico contenente le opere di Dante, allora l’inserzione di nuove categorie potrebbe portare ad un appesantimento ingestibile del sistema concettuale che risulterebbe, così, difficilmente implementabile. Tali categorie saranno poi necessariamente sottoposte alla soggettività del  ricercatore; una soggettività che si riflette necessariamente nella mancanza di un modello standard di ricerca.
Tuttavia bisogna anche tener presente che ci troviamo in una fase pionieristica della ricerca: la pesantezza del sistema potrà essere facilmente aggirata grazie ad una gerarchizzazione delle sue categorie mentre, riguardo alla standardizzazione, sebbene le prime ricerche debbano essere condotte per forza di cose in assenza di un modello standard, tale modello potrà essere prodotto a partire dalle ricerche stesse, in modo che possa essere esportato e riprodotto per ricerche future.

3.                  Conclusioni

Già in fase preliminare ci eravamo accorti di quanto questo canto fosse ricco di termini legati alla materia, in particolar modo nella sua prima sezione.
L’analisi dei singoli termini e la loro ripartizione nelle varie sezioni dello schema concettuale di Hallig e Wartburg ci ha permesso di confermare le ipotesi da cui eravamo partiti: nel VI canto a prevalere sono l’area semantica fisico-meteorologica, impiegata nella descrizione dell’ambiente del terzo cerchio e, soprattutto, l’area semantica legata al mondo animale, impiegata nella descrizione di Cerbero.
L’analisi della prima area ci ha permesso di comprendere un po’ meglio come sia strutturato l’ambiente dove vengono puniti i golosi: una distesa di terra puzzolente sulla quale i dannati giacciono costantemente flagellati da acqua, ghiaccio e neve che precipitano inesorabilmente sul cerchio.
Tuttavia è proprio nell’analisi della descrizione del demonio che sono emersi gli spunti di discussione più interessanti. Già ad una prima lettura, infatti, ci eravamo accorti di come la figura di Cerbero fosse una fusione di elementi bestiali ed elementi umani ma, dopo l’analisi dei singoli termini, siamo in grado di specificare che cosa, precisamente, il cane tricipite abbia di bestiale e che cosa, invece, abbia di umano.
Come possiamo dunque immaginare il Cerbero dantesco? Senza un’analisi di questo genere nemmeno la fervida fantasia di Gustave Doré poteva arrivare a descriverlo in modo adeguato.

Nell’illustrazione vediamo un Cerbero ancora classico: un cane con tre teste con un corpo nerboruto e possente. Probabilmente, ma certo non abbiamo la pretesa di sapere che cosa avesse nella mente, Dante immaginava Cerbero in un altro modo, un modo che mischiasse la tradizione classica con la demonologia medievale.
Cerbero non è più un animale fantastico, come lo era stato fino a Virgilio, ma un vero e proprio demonio. Il terrore, il ribrezzo che provoca non sono dovuti alla sua potenza e bestialità ma a quegli elementi umani che sul corpo canino sono innestati. Se nessuno, in italiano antico, aveva mai utilizzato le parole facce e barba per indicare il muso di un cane, allora potremmo ragionevolmente pensare che nemmeno Dante volesse indicarlo. Forse il poeta immaginava davvero che le facce di Cerbero, pur zannute e “caninamente latranti”, fossero facce umane; facce di uomini ingordi con la barba unta e nera, come se fosse stata appena sollevata da una qualche gustosa pietanza.
Allo stesso modo, se il termine mani non era mai stato usato per indicare le “zampe” allora forse Dante immaginava che il suo Cerbero avesse mani umane, dotate di bestiali artigli grazie ai quali graffiare, scuoiare e squartare le proprie vittime. Forse l’immagine che meglio condensa, nel canto, l’incontro tra umano e ferino.
Facce umane su un corpo canino, zanne animali su una faccia umana; mani umane su arti di bestia, artigli animali su mani umane. Adesso abbiamo un’immagine molto più chiara di che cosa sia Cerbero: non più lo statuario Cerbero virgiliano che solo la Sibilla Cumana poteva placare grazie ad una soporifera leccornia (Aen. VI 420-421), ma un Cerbero accecato dall’ingordigia, proprio come i dannati di questo cerchio, al quale basta ingurgitare un po’ di terra per tornare alla quiete.
In quanto demonio vero e proprio, e non semplicemente animale fantastico, il termine Cerbero andrà dunque più correttamente inserito nella sezione B del sistema concettuale Hallig e Wartburg.

A cura di Leonardo CANOVA



[1] Gli strumenti di cui ci avvarremo per quest’analisi sono i principali corpora informatici dell’italiano antico: DanteSearch per le opere dantesche; il Corpus TLIO ed il Corpus Taurinense per le attestazioni extra-dantesche. Riguardo all’Enciclopedia Dantesca Treccani essa costituisce senza dubbio un ottimo strumento di partenza tuttavia, dal momento che porta necessariamente con sé un commento, andrà utilizzata in modo critico.

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