“
Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quello che ha da dire”
Italo
Calvino
Introduzione – Il fatto
Quest'anno,
in occasione del settimo centenario della nascita di Giovanni Boccaccio, sono
fiorite numerose pubblicazioni, critiche e letterarie, sull'opera dello
scrittore certaldino, in particolare sul Decameron. Tra queste, in
un'intervista per Il Venerdì di Repubblica del 4 Ottobre 2013 a firma di
Luigi Irdi, Aldo Busi rispolvera per l'occasione una sua “traduzione”[1]
del Decameron di Boccaccio la cui prima edizione, per Rizzoli, risale
addirittura al 1990 e che, quest’anno, è stata premiata col Premio Letterario
Giovanni Boccaccio 2013.
Aldo Busi è noto come romanziere,
come critico artistico e letterario, come personaggio televisivo, ma in
particolar modo per il suo spirito provocatorio, ostentatamente rivoluzionario
e disfattista, con cui si presenta nelle varie trasmissioni televisive. Ne
segue che Busi veda naturale, addirittura “indispensabile”, una “traduzione”
del capolavoro boccaccesco, in quanto – cito – “L'italiano del trecento è una lingua totalmente straniera” che,
come tale, merita di esser tradotta proprio come le opere inglesi, francesi
ecc.
Al rischio di corrompere il
messaggio originale dell'autore, la sua ultima volontà, Busi contrappone il
notevole guadagno tratto dal recuperare un' opera relegata in asfittiche
edizioni piene zeppe di note linguistiche che, per il traduttore, sono “una gran rottura di palle”. Allora via
all'attualizzazione coatta, benvenuti neologismi, anacronismi, che ripristino
il senso del riso che, sotto una patina linguistica ormai datata, si era perso
nell'opera originale che, comunque, resta a disposizione di tutti. Questa è
un'operazione che, a detta dell'autore non dovrebbe risparmiare nessun testo,
anche più recente – si cita Le sorelle Materassi di Palazzeschi – pur di
riportare alla luce opere altrimenti confinate ai più remoti e polverosi
scaffali delle librerie.
1.
Il Decamerone
di Aldo Busi
Curioso,
ed anche un po' scettico, mi sono procurato una copia dell'edizione 2013 per
BUR del Decamerone (versione in italiano moderno) di Aldo Busi. La
quarta di copertina riporta queste parole del “traduttore”:
Ho tradotto Il Decamerone di
Boccaccio
non ho scritto il mio. Questa
traduzione
non ha affatto la pretesa di
essere
una traslitterazione o una
ricreazione
o altra cosa dall'originale: è
l'originale oggi.
Tralasciando
il fatto che qualsiasi filologo, leggendo questa dichiarazione, arriccerebbe
quantomeno il naso, mi sembra un obiettivo alquanto ambizioso.
Comunque, apro il libro e mi trovo
davanti una “Nota del Traduttore” che recita: “Via i preamboli, le canzoni e
le sfiziose oziosità in villa delle sette conteuses e dei tre raccontatori fra
una giornata e l'altra; via gli abboccamenti moralistici che gravano su quasi
ogni singola novella; via la maggior parte dei titoli di messere e cavaliere –
che poi, a ben guardare, a cavallo ci vanno ben poco e trattasi di cavalieri
tutt'al più del lavoro, cioè di commenda che per tutta la vita hanno fatto
lavorare gli altri”. In tre parole: via la cornice.
Conscio di questi propositi ho voluto
vedere nel concreto che cosa avesse fatto Busi nella sua “traduzione”, perciò
ho ripreso la mia vecchia edizione del Decameron di Giovanni Boccaccio,
Einaudi 1980, a cura di Vittore Branca, ed ho scelto qualche novella come
campione per vedere come si fosse comportato Busi nelle varie situazioni che
Boccaccio affronta nella sua opera.
1.1. Busi e
Boccaccio
Capacità
universalmente riconosciuta del Boccaccio fu quella di aprire il tessuto
narrativo alle varie sfaccettature del reale, analizzate, con una pluralità di
stili che vanno dal popolare e prosastico al sublime e tragico, grazie ad una prosa latineggiante (il cui
modello principale è Livio) fatta di periodi ampi e modulati, ricchi di subordinazioni,
che “sembrano voler seguire tutte le
sinuosità, le sfumature della realtà mediante sempre nuove precisazioni e nuove
specificazioni” (Ferroni).
La suggestiva interpretazione di
Vittore Branca, che si accorge dei rapporti che intercorrono tra la cornice e
le novelle, vede nel Decameron lo
schema medievale della “commedia”: un percorso ascensionale che
va dal puro vizio della prima giornata, concretizzato nella figura di Ser
Ciappelletto, alla pura virtù dell'ultima, concretizzata nella figura di
Griselda; durante le giornate si esplicherebbe quindi l'azione delle tre grandi
forze che reggono il mondo: la Fortuna (II e III giornata), l'Amore (IV e V
giornata) e l'Ingegno (VI, VII e VIII giornata), mentre la IX giornata
costituirebbe una ripresa dei temi precedenti.
Dunque, proprio per vedere come Busi
si fosse destreggiato in questo “mondo” boccaccesco, ho scelto di analizzare,
oltre alla mancanza della cornice, tre novelle che ho ritenuto rappresentassero
bene alcune delle sfaccettature di questo mondo: III,1 Masetto da
Lamporecchio e le monache (Le corna di Cristo per Busi), VI,4 Chichibio
cuoco (La coscia fantasma per Busi), X,10 Griselda e il marchese
di Saluzzo (Griselda, l'invincibile disfatta per Busi).
1.1.1. La
cornice
Il Decameron
di Boccaccio è suddiviso in dieci giornate comprendenti dieci novelle
ciascuna. Le novelle non ci vengono presentate una dopo l’altra, senza legami,
ma si collocano all'interno di un quadro narrativo, definito appunto “cornice”,
nel quale l'autore immagina una brigata di tre ragazzi e sette ragazze che, per
sfuggire alle atrocità della peste imperversante a Firenze nel 1348, si
rifugiano in un podere in campagna per dedicarsi a svaghi e diletti. In
particolare si stabilisce che ogni giorno venga eletto un re o una regina che
decida l'attività della brigata: la prima regina, Pampinea, decide che si
trascorra il tempo a raccontare novelle e dunque, per dieci giorni, il re della
giornata sceglierà l'argomento di cui gli altri componenti della brigata,
narrando ciascuno una novella, dovranno trattare. Nella cornice l'autore prende
direttamente la parola tre volte: in una breve introduzione iniziale in cui
dedica l'opera alle donne, all'inizio della quarta giornata, e nella
conclusione, dove si esaltano la molteplicità dei punti di vista e la
mutevolezza delle cose del mondo.
Ogni
giornata è poi introdotta da una breve introduzione in cui si descrivono le
attività della brigata: l'introduzione alla prima giornata descrive “l'orrido
cominciamento”, ovvero la peste del 1348, rappresentata in modo scrupoloso e
realistico: in questo modo il raccontare diventa restaurazione di un ordine,
risposta allo sconvolgimento che la peste (e gli eventi che l’avevano preceduta[2]) ha causato nella città. I
rapporti fra i tre giovani e le sette fanciulle restano nei limiti del decoro e
realizzano un mondo stilizzato e ben composto che si oppone sia a quello
cittadino sia a quello erotico-carnevalesco di cui spesso trattano le novelle,
recuperando il modo di vivere cortese che Boccaccio aveva avuto modo di
conoscere nella sua gioventù napoletana.
Le figure dei narratori e delle
narratrici, individuate da nomi fittizi (che spesso rimandano ad altre opere
dell'autore), sono prive di individualità e di una psicologia precisa: sono
strumenti dell'autore grazie ai quali guardare l'infinita varietà del reale
dall'ordine perfetto di una vita decorosa e regolata.
Nonostante questo, l'espediente della
“cornice” dona all'opera una forte unità e strutturazione e colloca le novelle in un
contesto edificante che, come abbiamo visto, può essere interpretato come un
percorso ascensionale, attraverso la realtà, verso la virtù.
Aldo Busi non elimina completamente
la cornice: mantiene gli interventi dell'autore e la descrizione della peste ma
decide di sopprimere tutte le introduzioni alle giornate in quanto
l'inconsistenza psicologica dei narratori permette liberamente di eliminarli: “Quel
che conta è la narrazione per bocca, si fa per dire, di un uomo o di una donna
il cui nome solitario in cima a ogni storia non ne può ulteriormente impoverire
il già stringato profilo esistenziale”.
Ciò che Busi non considera, a mio
parere, nel compiere questo taglio indiscriminato, è che a Boccaccio non
interessasse affatto dare un profilo psicologico ai suoi personaggi ma
utilizzarli per esprimere una visione policentrica del reale: tagliando le pur
brevi introduzioni alle giornate si priva il testo di quell'alternanza
disordine/restaurazione dell'ordine che costituisce l'ossatura stessa
dell'opera originale.
Sempre Vittore Branca ha notato che
i tre personaggi maschili (Panfilo, Filostrato e Dioneo) rappresentano tre
diverse immagini dell'autore, grazie alle quali si tenta un approccio diverso
alla materia trattata, sempre con il proposito di rendere ogni piega della
realtà.
Busi, tagliando queste scenette di
vita cortese che intervallano le novelle, non solo dà un taglio nettamente
diverso all'opera, che davvero diventa una mera raccolta di novelle individuate
solo da un titolo e dal nome di un narratore di cui non sappiamo niente, ma
rende difficile anche capire alcune particolarità dell'opera.
Ad esempio Dioneo all'inizio della
seconda giornata riceve il privilegio di raccontare l'ultima novella di ogni
giornata, svincolato dall'argomento stabilito dal re o dalla regina di quel
giorno e propendendo per la materia più strettamente comica ed erotica; il
lettore del Decamerone di Busi si troverà a leggere una novella slegata
dall'unità tematica delle altre senza avere alcuna giustificazione in merito da
parte dell'autore (né del “traduttore”). Inoltre, sopprimendo la cornice,si
priva l’opera di quell’elemento originale che l’aveva distinta da raccolte
precedenti come Il Novellino.
1.1.2. Il comico
e i “motti di spirito”
Per
cominciare a farmi un'idea del lavoro di Busi ho deciso di prendere le mosse da
un terreno che, viste le sue esperienze letterarie, ritenevo più congeniale
all'autore. Perciò mi è venuta la curiosità di vedere come, un misogino
anticlericale come Busi, rappresentasse le monache, già tanto colpite dallo
spirito di Boccaccio.
Nella prima novella della terza
giornata, Masetto da Lamporecchio e le Monache, Filostrato narra
di un giovane e avvenente contadino, Masetto, che, fingendosi muto, si fa
assumere come giardiniere di un convento di monache, le quali fanno a gara per
giacere con lui.
La versione di Busi, Le corna di
Cristo (il titolo è ripreso dalle ultime parole della novella originale),
ricalca sostanzialmente la novella originale, introducendo novità soltanto a
livello linguistico. A un livello lessicale Busi fa un largo uso di espressioni
colloquiali e polirematiche di uso contemporaneo nelle quali si nota una
forzosa (e esibita) volontà di modernizzare senza curarsi di introdurre
anacronismi e vere e proprie forzature[3]. Busi “traduce” anche
espressioni perfettamente comprensibili con altre prese dalla lingua dell'uso
contemporanea se non addirittura dal (o da quello che lui crede essere) gergo
adolescentesco, di cui spesso non si sente il bisogno e anzi si percepisce un
forte stridore; così forte e robusto diventa un fisico che levati!,
deh come ben facesti a venirtene! viene reso con hai fatto proprio bene
a piantarle lì nella merda; vengono introdotte espressioni come da vero
maciste, in un batter d'occhio, belle belline (per “carezze”), figata,
super, situazione del cacchio, assunse. Il tutto tende ad assumere quindi
un registro più marcatamente colloquiale, lontano dallo stile avvolgente di
Boccaccio che abbraccia diversi registri rimanendo però sostenuto e regolato:
distaccato. Inoltre sempre a livello lessicale, come in ogni “traduzione”, si
perdono contenuti semantici importanti: nel passaggio da omicciuolo a ometto
si ha addirittura una connotazione opposta, dovuta forse ad una svista
dell'autore, in quanto il primo è un dispregiativo mentre il secondo un
vezzeggiativo.
Risultati migliori Busi li raggiunge
a livello sintattico: la struttura del discorso risulta notevolmente
semplificata e alleggerita, effettivamente più comprensibile dell'originale per
un parlante contemporaneo ma senza che venga clamorosamente tradita
l’argomentazione dell'autore. I periodi ampi e ricchi di subordinazione
boccacceschi sono qui resi grazie a una lingua più piana e paratattica in cui
difficilmente si supera il primo grado di subordinazione. Al di là
dell'insostenibilità del metodo, di cui tratteremo più tardi, forse questo è
l'unico ambito in cui l'opera di Busi raggiunge qualche risultato apprezzabile.
A questo proposito basti come esempio l'analisi di un periodo della novella
III,1:
“Ora,
avendo il castaldo veduto che egli ottimamente sapeva lavorare e con cenni
domandatolo se egli voleva star quivi e costui con cenni rispostogli che far
volea ciò che egli volesse, avendolo ricevuto, gl'impose che egli l'orto
lavorasse e mostrogli quello che a fare avesse.” [Boccaccio]
Vediamo
qui un periodo riccamente articolato in uno schema molto ben architettato: due
principali coordinate reggono entrambe una subordinata oggettiva; sempre al
primo grado di subordinazione abbiamo quattro attributive causali\temporali
coordinate tra loro, le prime tre delle quali reggono, al secondo grado di
subordinazione, o un'oggettiva o un'interrogativa indiretta.
“Il
fattore, visto che era un gran lavoratore e tutto precisino[4], gli chiese a gesti
se voleva restare e, sempre a gesti, lo vide rispondere che si metteva a sua
disposizione, perciò lo assunse e
gli ordinò di occuparsi dell'orto...” [Busi]
La
semplificazione salta subito all'occhio, il periodo si fa paratattico e la
subordinazione non va oltre il primo grado. Inoltre si nota un riordinamento
delle frasi, e delle parole all'interno delle frasi, più conforme all'italiano
dell'uso contemporaneo.
Le stesse operazioni lessicali e
sintattiche Busi le ripropone anche nella sesta giornata dedicata ai “motti di
spirito”: il sapiente uso del linguaggio che regola o sospende il conflitto con
gli altri individui, trasformando l'aggressività in manifestazione di civiltà.
Curioso di vedere come Busi avesse
reso i “motti di spirito” ho analizzato la famosa novella VI,4: Chichibio
cuoco, per Busi, La coscia fantasma. La “traduzione” ricalca
grossomodo la versione originale, pur sforzandosi di modernizzare il testo
ancora una volta grazie ad espressioni di cui non si sente il bisogno come: ping-pong,
bird-watcher, cagarella super, magna-a-ufo, scottadito. Anche il dialetto veneziano del protagonista,
Chichibio, viene reso da Busi che anzi lo amplifica e lo estende ad ogni
intervento in discorso diretto del personaggio, introducendo termini dialettali
come sior, non presenti nell'originale. Anche qui la semplificazione
sintattica è ben realizzata e nel complesso, ancora una volta salvo gli eccessi
di cui sopra, non si sente una forte perdita di contenuti rispetto
all'originale.
1.1.3. Tragico e
Sublime
Il
“giochino” di Busi, come abbiamo visto, tutto sommato regge per le novelle di
argomento comico-scherzoso Mi sono chiesto allora come avesse operato, invece,
per le parti di testo di argomento più tragico e sublime. Il nocciolo della
questione sta in quell'invece: sostanzialmente Busi opera nello stesso
modo per ogni passo del Decameron. Vediamo come.
Uno dei passi più volutamente
tragici e realistici del Decameron,
dove anche l’ironia che caratterizza gran parte dell’opera tende a farsi da
parte, è sicuramente la descrizione della peste di Firenze, il cosiddetto
“orrido cominciamento”; volutamente perché deve servire da contraltare a tutto
ciò che la segue: in essa Boccaccio vuole rappresentare l'orrore e la tragedia,
il caos sorto da un’epidemia vista tutta con occhi umani, non divini, che ha
scardinato tutto il sistema di valori morali e la stessa vita sociale, portando
la società contemporanea al suo massimo grado di disgregazione. La descrizione,
che ha alle spalle celebri precedenti letterari come l’Historia Langobardorum di Paolo Diacono, deve essere cruda e
particolareggiata proprio per marcare lo stacco con l'ordine del locus
amoenus in cui si svolgono le attività della brigata di cui, nell’opera di
Busi, non abbiamo notizia.
Se l'inserimento di espressioni
gergali e colloquiali si poteva ancora tollerare all'interno delle novelle che
abbiamo analizzato, qui l'impressione che se ne ricava è quella di una vera e
propria parodia del testo originale. La peste sembra esser descritta da Busi
con un sorrisetto compiaciuto stampato sulla faccia: la tragedia viene meno, il
realismo pure, ciò che resta è il popolino che si agita sullo sfondo di
una città dipinta in modi a tratti farseschi. Qui espressioni come fracco,
quattro e quattrotto, a sbafo, i cavoli suoi, e stop, chi se ne impipa, e amen,
non si limitano a stridere come nelle novelle di cui sopra, ma danno
l'impressione di un qualcosa di forzato, che niente ha a che vedere con la
volontà dell'autore. Non solo il lessico ma tutta l'impalcatura sintattica e
stilistica contribuiscono a questa visione parodistica dell'originale
boccaccesco, per cui, per fare un esempio,
un periodo come:
“Dico che di tanta efficacia fu
la qualità della pestilenza narrata nello appiccarsi da uno a altro, che non
solamente l’uomo all’uomo, ma questo, che è molto di più, assai volte
visibilmente fece, cioè che la cosa dell’uomo infermo stato, o morto di tale
infermità, tocca da un altro animale fuori della spezie dell’uomo, non
solamente della infermità il contaminasse ma quello infra brevissimo spazio
uccidesse.”
Viene
“tradotto” con:
“Sottolineo che la virulenza
della peste fu tale che non soltanto l’uomo attaccava al suo simile, il che va da sé, ma addirittura
successe un fracco di volte che una
cosa dell’ammalato o del morto, toccata da un animale di tutt’altra specie, non
solo lo contagiasse della stessa malattia, ma lo uccidesse in quattro e quattrotto.”
Ma gli
esempi si potrebbero moltiplicare.
Ora,
forse non ci riuscirà difficile immaginare un Boccaccio contemporaneo che, per
rappresentare la vita licenziosa delle monache, faccia uso di espressioni come merda,
maciste e figata, ma penso che chiunque faccia fatica a
immaginare un Boccaccio compiaciuto di parodiare una descrizione di un cataclisma
naturale la cui funzione all'interno del testo è, per giunta, quella di
generare orrore nei lettori, e nelle lettrici, con una rappresentazione di
totale dissipazione morale e civile.
Busi riesce a contenersi un po' di
più nella resa della novella X,10: Griselda e il conte di Saluzzo,
culmine della rappresentazione della virtù umana in cui lo stile si fa più
marcatamente sublime e tragico. Nella “traduzione” di questa novella, che Busi intitola
Griselda, l'invincibile disfatta, l'autore sembra cercare uno stile un
po' più sostenuto, anche se non di rado sprofonda in quel “feticismo del
moderno” che caratterizza l'intera “traduzione”. Così, sebbene in forme più
mitigate, l'eroica vicenda di Griselda, apoteosi della madre e della moglie,
non manca di accogliere espressioni come coglioneria grandissima, anticamera
del cervello, pedigree, pompamagna, test, tiè, brodo di giuggiole,
commercialista. Il risultato, anche qui, è quello di un rovesciamento
parodico dell'originale, come risulta dal confronto del seguente passo:
“E egli disse: <<E io
voglio te per mia moglie>>; e in presenza di tutti la sposò; e fattala
sopra un pallafren montare, orrevolmente accompagnata a casa la si menò” [Boccaccio]
“<<Benone, e io ti voglio per moglie>> e la sposò in presenza di
tutti quei testimoni, poi la fece salire su un bel cavallo e se la portò a casa
in pompamagna.” [Busi]
in cui
l’atmosfera aristocratica e fiabesca si perde con l’introduzione di inutili
attualizzatori.
1.1.4.
Considerazioni finali sull'opera
Della
necessità e utilità di una “traduzione” dei classici italiani parleremo nel
capitolo successivo. Qui solo alcune considerazioni sulla qualità della
“traduzione” del Decameron compiuta da Busi.
Il Decamerone di Aldo Busi è
un'opera di agile e piacevole lettura il cui maggiore difetto sta appunto nel
porsi come “traduzione” dell'originale boccaccesco. La semplificazione generale
della struttura narrativa e della cornice relega le novelle ad occasioni
casuali, non inserite in un contesto e in un progetto come quelle
dell'originale. Ciò che si perde, a livello di contenuto, è il messaggio
stesso, la morale, se vogliamo, dell'opera, vista da Busi come un libello pieno
di racconti licenziosi e burleschi il cui unico obiettivo è suscitare la
risata. E in effetti è proprio questo il modo in cui ci viene presentata questa
“traduzione”. Se questo fosse stato l'intento dell'autore, allora Busi avrebbe
davvero realizzato ciò che si era proposto di fare, ma la perdita di contenuto
rispetto all'originale è notevole e difficilmente giustificabile per un'opera
che vuole proporsi come l'originale oggi. Al passato rimangono la vita
della brigata, i modi di vedere la realtà di ogni personaggio, il proposito
della brigata di restaurare un ordine dove più non c'era, lo stesso principio
di ordine che regola tutta l'opera, nonché tutte le strutture e convenzioni
civili e sociali della Firenze comunale del Trecento. In sostanza, si azzera la
distanza storica necessaria alla comprensione dell’opera, producendo un testo acronico (Tesi) che pretende di
sostituirsi all’originale.
Più grave ancora della perdita di
contenuti è, a mio parere, l'appiattimento stilistico operato da Busi su tutta
l'opera. La caratteristica che forse salta più all'occhio dell'opera di
Boccaccio è l'utilizzo di una lingua fiorentina che si dispone con equilibrio
classico[5], in forme aristocratiche che
rifiutano ogni elemento dialettale o troppo particolare ma che, spesso, proprio
col proposito di addentrarsi nelle più segrete pieghe della realtà, si apre a
costruzioni e termini popolari e vernacolari, a dialetti specifici di alcune
aree geografiche, fino a precipitare verso la deformazione espressiva ed alla
parodia di se stessa.
Aldo Busi, al contrario, abbassa tutto
verso uno stile basso e piano, ricco di termini popolari e colloquiali che, se
possono essere accettati in ambito comico-burlesco, difficilmente si sposano ad
argomenti di tono più serio ed elevato (è il caso, come abbiamo visto, della
descrizione della peste). L'impressione di deformazione parodistica giunge a
toccare il grottesco proprio in quei passi in cui il Boccaccio vi si era tenuto
più lontano, andando a rendere ridicole e patetiche le più alte figure
dell'opera. Lo stile di Boccaccio è uno stile classico e sostenuto che non
disdegna, dove ce ne sia bisogno, di aprirsi a registri bassi e
popolareggianti, lo stile di Busi è uno stile basso e colloquiale che,
invariabilmente, riproponendo gli stessi stilemi, non fa percepire alcuna
variazione di tema e pone tutta la narrazione ad un livello di ordinaria
bassezza.
Oltre a questo, “tradurre” Boccaccio
va incontro ad un problema di fondo. Come si può pensare di arrogarsi il
diritto di produrre un nuovo originale, quando Boccaccio fu il primo nella storia
a sostenere la necessità di leggere le opere in lingua originale, occupandosi
personalmente di promuovere lo studio della lingua greca in Italia?
2.
La
“traduzione” dei classici italiani
L’abitudine
di “tradurre” i classici italiani in una lingua più vicina alla nostra è più
diffusa di quanto si possa pensare, e anche più antica. Infatti, già nel 1612,
Paolo Beni, filologo e studioso di Aristotele, decise di tradurre alcuni passi
del Decameron in una lingua
“moderna”, “regolata e gentile”, in contrasto con la vera e propria censura
perpetrata dal Salviati con la sua “rassettatura” del 1582. Tuttavia perché
studi di questo genere ritornino a suscitare interesse, eccezion fatta per
alcuni lavori minori degli anni ’60, dobbiamo attendere la fine del XX secolo.
Nel
1990 veniva data alle stampe da Rizzoli la “traduzione” del Decameron di Giovanni Boccaccio
realizzata da Aldo Busi che, in effetti, può essere considerato un pioniere di
questo “genere”. Circa un anno dopo Piero Melograni, docente di storia contemporanea
dell’Università di Perugia, recentemente scomparso, rilasciava questa
dichiarazione:
“Alcuni anni or sono, Goffredo
Parise[6]mi
confidò […
] di
esser riuscito a capire e a gustare “il Principe” di Machiavelli solamente dopo
averlo letto in traduzione francese. Soggiunse che gli stranieri conoscevano
Machiavelli meglio degli italiani, poiché avevano la fortuna di leggerlo tradotto.” [Melograni, Premessa e dedica al Principe di Machiavelli]
Frutto di queste idee fu l’edizione sinottica del Principe di Machiavelli, “tradotta” da
Piero Melograni in italiano contemporaneo, data alle stampe nel 1991 ancora una
volta da Rizzoli. Proprio in quegli anni vennero a moltiplicarsi pubblicazioni
di questo genere: tra il 1992 e il 1993 sempre Aldo Busi, questa volta aiutato
dalla scrittrice Carmen Covito, pubblica per Rizzoli le “traduzioni” de Il Novellino e del Cortigiano di Baldesar Castiglione; sempre nel 1992 Myriam
Cristallo produce, ancora per Rizzoli, la sua “traduzione” del Galateo di Giovanni della Casa, mentre
tutta una serie di lavori sul Decameron e
su Il Principe continueranno ad esser
editi fino agli inizi del XXI secolo.
Ancora oggi l’editor Federica Magro, responsabile
dei tascabili RCS ha progettato una
collana per la quale ha chiesto ad autori contemporanei di riscrivere liberamente alcuni dei grandi classici
della letteratura italiana come, appunto, Il
Principe di Machiavelli, la cui nuova edizione è curata dalla filologa
Martina di Febo, Le Ultime Lettere di
Jacopo Ortis di cui si occupa Sebastiano Mondadori, per poi arrivare alla Gerusalemme Liberata di Tasso e agli
stessi Promessi Sposi di Manzoni. Sempre in quest’ottica
riattualizzante è da vedere il lavoro di Amedeo Quondam, professore di
letteratura italiana all’Università La Sapienza di Roma, nonché ex presidente
dell’ADI (Associazione degli Italianisti Italiani), che ha “tradotto” in
italiano contemporaneo, seppur in una veste molto accademica, Il Cortegiano di Baldesar Castiglione
nell’opera Il Cortigiano edita da Mondadori
nel 2002.
Il fiorire di pubblicazioni di
questo genere[7]
dimostra che ormai da diversi anni la discussione sull’opportunità di
“tradurre” i classici italiani in italiano contemporaneo si è fatta accesa,
soprattutto per la possibilità di importare queste versioni “tradotte” nelle
scuole. Potrà stupire ma numerosi studiosi italiani, letterati, linguisti e
filologi, hanno sostenuto e tutt’ora sostengono l’utilità di questo genere di
operazioni, che hanno ricevuto un’investitura ufficiale nella relazione del
presidente dell’ADI, Vitilio Masiello, su Quale
ruolo per la Letteratura Italiana nella scuola del 2000?, redatta in
risposta alle problematiche sorte in seguito alla legge n°30 del 10 Febbraio
2000 sul riordino dei cicli di istruzione.
Da lì presero avvio i lavori di una commissione di studiosi, tra cui Marco
Santagata, Mirko Tavoni e lo stesso Amedeo Quondam, che raccomandò
l’elaborazione e l’utilizzo sistematico nella scuola di classici italiani
tradotti per venire incontro alle esigenze di un mondo mutato. Tra le due vie
individuate da Masiello sul fatto che la scuola debba operare secondo i principi di una pedagogia adattiva, secondando le
tendenze in atto oppure configurarsi
come il luogo di distanza critica dall’immediatezza del reale la
commissione sembra quindi orientata verso la prima.
Dal mio punto di vista la questione
della “traduzione” dei classici italiani pone perlomeno due problemi di fondo:
uno linguistico, ovvero la necessità, o meno, di tradurre l’italiano[8] del Trecento, considerandolo
quindi separato dalla nostra lingua contemporanea; uno culturale, ovvero se il
testo “tradotto” abbia un qualche valore per la conoscenza dell’originale, come
si debba porre la “traduzione” all’interno della tradizione di quell’opera e
quali siano i rischi e i benefici dell’annullamento della distanza storica e
culturale; uno utilitaristico, ovvero: fino a che punto la “traduzione” di un
classico attrae utenti disinteressati all’opera originale?
2.1. Traduzione
o “traduzione”: la lingua
Che l’italiano
letterario del Trecento sia in una certa misura differente da quello che
comunemente usiamo oggi ci sembra una cosa ovvia. Ma fino a che punto quella
lingua ci risulta incomprensibile, tanto da dover richiedere di essere
“tradotta”? Quanto la nostra lingua (perché della nostra lingua, e non di
un'altra, si tratta) si è trasformata negli ultimi settecento anni?
Evitando di impelagarsi in
considerazioni linguistiche poco adatte ad un pubblico di liceali, per chiarire
le idee mi sembra opportuno il confronto con un’altra lingua con cui spesso
abbiamo a che fare: l’inglese. Quelli che seguono sono alcuni versi, scelti in
verità in modo abbastanza casuale, del Sir Gawain e il Cavaliere Verde,
un poema cavalleresco composto in Inghilterra all'incirca quando il Decameron
stava subendo le ultime revisioni da parte dell'autore.
“(bob)
ful clene
(wheel)
for wonder of his hwe men hade
set in his semblaunt sene
he ferde as freke were fade
and oueral enker grene” ( Sir Gawain and the Green Knight versi 146–150)
(wheel)
for wonder of his hwe men hade
set in his semblaunt sene
he ferde as freke were fade
and oueral enker grene” ( Sir Gawain and the Green Knight versi 146–150)
Al di
là delle considerazioni linguistiche si osservi che il correttore automatico di
MS Word, impostato sulla lingua inglese, considera molte più parole come errate
di quante invece non siano considerate esatte, sul canone dell’inglese
contemporaneo. Un'altra lingua, in questo caso non vi sono dubbi, tanto che,
quando J.R.R. Tolkien decise di riscrivere il poema in inglese moderno, nessuno
protestò.
Possiamo
dire lo stesso della prosa di Boccaccio? No, non possiamo. Anche qui basti
questa prova empirica a supporto di questa tesi:
“Il quale. sì come il più de’ gentili
uomini avviene, d’una gentil donna chiamata monna Giovanna
s’innamorò, ne’ suoi tempi tenuta delle più belle donne e delle più leggiadre
che in Firenze fossero; e acciò che egli l’amor di lei acquistar potesse,
giostrava, armeggiava, faceva feste e donava, e il suo senza alcun ritegno
spendeva; ma ella, non meno onesta che bella, niente di queste cose per
lei fatte né di colui si curava che le faceva”. (Decameron,
V,9)
Questo
è un passo tratto dalla celebre novella di Federigo degli Alberighi del Decameron
di Boccaccio, il correttore automatico di MS Word, buon testimone
dell'italiano (scritto) contemporaneo, non segna nessuna parola. Bisogna
tuttavia specificare che lo strumento informatico non tiene conto di almeno due
grandi categorie di problemi:
·
i
cosiddetti “falsi amici”[9], ovvero parole di suono e
forma equivalente ma soggette, nel passaggio da una fase della lingua ad
un’altra, a mutamento di significato. Ad esempio, l’aggettivo gentili nell’italiano di Boccaccio
indicava un rango sociale aristocratico, e allo stesso modo onesta rimanda più a virtuosa che non a onesta nel senso odierno del termine.
·
le
costruzioni sintattiche differenti dall’uso attuale: come ad esempio l’alto
numero di incisi o la posizione dei possessivi rispetto al nome.
Le
differenze, dunque, ci sono, ma non sono sufficienti a metterci nelle stesse
condizioni di inglesi, francesi o tedeschi, le cui lingue sono cambiate
drasticamente rispetto al Medioevo e che oggi non possono leggere i loro
classici senza il supporto di un vocabolario e grazie allo studio di una
diversa struttura grammaticale, proprio come farebbero con una lingua
straniera. È ovvio che a livello storico italiano moderno e fiorentino antico
siano nettamente separati (l’Italia, come nazione, nascerà soltanto nel XIX
secolo e il fiorentino comincerà ad imporsi nella penisola soltanto a partire
dal Cinquecento), ma in prospettiva linguistica si può effettivamente parlare
di una stessa lingua, sebbene mutata nel tempo. Infatti, se è vero che
comunemente costrutti sintattici complessi come quelli usati dal Boccaccio non
si usano più e rendono più ardua la comprensione delle sue opere, è vero anche
che la struttura della lingua contemporanea consentirebbe, potenzialmente, di
usarli.
A tal proposito sono interessanti i
dati statistici proposti dal Dizionario
Italiano Sabatini Coletti che rileva che più del 20% delle parole che
registra un ampio dizionario dell’uso moderno sono attestate sin dal Trecento,
ovvero venivano già usate da Dante e Boccaccio nella stessa identica forma;
percentuale che aumenta esponenzialmente (oltre il 60%) se consideriamo anche
parole formate solo successivamente ma a partire da basi già attestate allora:
parole che, pur non venendo utilizzate, erano già inscritte nelle potenzialità
strutturali dell’italiano.
Si percepisce quindi, nelle varietà
diacroniche dell’italiano, una continuità senza dubbio maggiore di quella di
tutte le altre lingue europee: continuità però spesso negata da studiosi, come
il linguista anglosassone Nigel Vincent, che sostengono che l’unità storica
dell’italiano sia un mito che verrà ben presto dissipato[10]. Di questa continuità si era
già accorto uno dei massimi linguisti italiani di fine ‘800: Graziadio Isaia
Ascoli, che affermava:
“L’italiano vero e proprio,
all’incontro [col
francese], non è la resultanza del latino
volgare che si combini o collutti con altre favelle, ma è la limpida
continuazione del solo latino volgare […]. La maggior purezza della tempera del linguaggio si combina poi con una
persistenza che rasenta l’invariabilità. Non c’è così un antico italiano da
contrapporre al moderno, come al moderno francese si contrappone un antico […]. È evidente per tutti che la lingua di Dante
è l’italiano che ancor vive e si scrive.”[11]
[L’Italia dialettale 1882-1885,
p. 124]
E
infatti, se andiamo a vedere da vicino, a differenze come la sintassi dei
pronomi atoni e del gerundio, e l’uso delle preposizioni, fanno da contrappeso
fenomeni macrolinguistici come la costanza quasi assoluta dell’assetto fonetico-fonologico,
la costanza di fondo dei paradigmi nominali e verbali, nonché del lessico. Se
poi si volesse generosamente lasciare aperta la questione dell’italiano del
Trecento, parlare di “traduzione” per il linguaggio sette-ottocentesco di
Foscolo e Manzoni sembra quasi fantascienza[12].
Per tutte queste considerazioni mi
sembra opportuno mantenere le virgolette quando si parla di “traduzione” dei
classici italiani.
2.2. Attualizzazione
o Banalizzazione: la cultura
Per
quanto riguarda il valore culturale delle “traduzioni” dei classici italiani
condivido in sostanza l’opinione di Michele Loporcaro[13], pur non volendo spingermi
ad identificare due correnti di pensiero contrapposte e facenti capo a Gramsci
(comunione culturale) e Rousseau (distruzione culturale).
Attualizzare
in alcuni casi significa appiattire, cancellare quello che è stato e rendere
tutto unidimensionale, acronico. Se è vero che tradizione e innovazione vanno
di pari passo e che la rifunzionalizzazione di un testo serve a trasmettere ai
posteri messaggi che altrimenti si dileguerebbero, tuttavia la via della
“traduzione” coatta dei nostri classici potrebbe non essere la migliore in
questa prospettiva.
Un classico, diceva Calvino, è un libro che non ha mai finito di dire
quello che ha da dire; ma la sua “traduzione” è un modo per schiarir loro
la voce o per tappar loro la bocca definitivamente?
Ora, supponiamo che uno studente
universitario partecipi al programma ERASMUS e si rechi a studiare a Parigi.
Insieme a lui partono altri quattro o cinque studenti italiani e tutti vanno a vivere
nella solita casa, parlando normalmente italiano. Supponiamo anche che questo
studente, nei rapporti che dovrà forzatamente intrattenere con gli autoctoni,
non si sforzi di apprendere il loro linguaggio e che, di riflesso, coloro che
interagiscono con lui limitino la loro espressività a poche frasi ben
comprensibili. Al suo ritorno questo studente non solo non avrà imparato il
francese, ma tantomeno avrà conosciuto la Francia e i francesi.
La situazione non è molto diversa
per l’eventuale lettore della “traduzione” di un classico italiano che non solo
non avrà avuto modo di confrontarsi con quella che è la sua lingua, anche se
nell’uso di qualche secolo prima, ma non avrà nemmeno avuto la possibilità di
accedere a tutto quell’universo di valori ed espressioni culturali che ogni
opera reca implicitamente con sé. Già Antonio Gramsci riconosceva il grande
valore culturale prodotto dal confronto con i classici del passato, confronto
che fornisce una materia di esercizio intellettuale e di riflessione,
indispensabile per la formazione della cultura.
A ben vedere è il metodo stesso
della “traduzione” ad essere insostenibile: all’esigenza di colmare il divario
storico e linguistico potrebbero tranquillamente assolvere delle note a piè di
pagina, quelle gran rotture di palle di
cui parla Aldo Busi. Lo studente, posto di fronte all’opera, avrebbe quindi una
duplice opportunità: la conoscenza storico-culturale dell’epoca in questione e
la possibilità di esercizio intellettuale su una forma di italiano diversa
dalla sua. La “traduzione”, invece, si propone, sotto una veste falsamente
attuale che crea degli ibridi che poco hanno della cultura di origine e poco
anche di quella di arrivo, di distruggere il gap culturale creato dalla
distanza storica in una prospettiva utilitaristica.
Sì, per affrontare un classico è
necessaria cultura, capacità metalinguistica e storica che la scuola dovrebbe
fornire ai suoi allievi: ma quale strada scegliere? Gettare la cultura per produrre
opere accessibili a tutti, che non sono
i classici, oppure fornire agli studenti gli strumenti necessari ad affrontare
l’originale? La scuola che ha formato la generazione precedente alla nostra
riusciva ancora a far percepire una certa continuità tra la nostra lingua e
quella del Trecento, oltre al fatto che l’espressione letteraria non è un
universo a se, ma una variante diafasica, più complessa ed elaborata, dello
stesso codice. La scuola di oggi evidentemente non riesce più a far percepire
questa continuità se Tullio de Mauro, all’inizio degli anni Novanta, raccontava
questo aneddoto:
“Tempo fa in un liceo italiano
una professoressa ha fatto leggere ad un allievo un passo dell’Orlando Furioso,
un testo che la generazione anziana nel suo segmento colto, ex liceale, era e
ancora è abituata a considerare un testo facile, immediatamente trasparente. Il
ragazzo ha letto e si è taciuto. La professoressa gli ha sollecitato con aria
interrogativa un commento, una spiegazione. Il ragazzo […] ha esclamato: “A
professoré, e che devo fare? Tradurre?”.” [Tullio de Mauro, Capire le Parole, 1994]
Un
fallimento epocale, delle cui cause non parleremo in questa sede, il cui prodotto finale è il destinatario
ideale delle attualizzazioni dei classici italiani.
Evitare di confrontarsi con la
distanza che c’è tra il nostro mondo e quello di cui i classici sono testimoni
è una scelta e, che si condivida o meno, non c’è niente da biasimare nel
lettore che decide di confrontarsi con la sua versione “tradotta”. L’errore più
esplicito, al limite della malafede, è quello degli editori-traduttori che
presentano queste opere come originali
contemporanei e illudono il lettore di aver effettivamente letto Boccaccio,
Machiavelli, Castiglione ecc. e di aver colto a pieno il loro messaggio. Non è
così. Il lettore dell’attualizzazione avrà letto un’opera più o meno ben
realizzata, ma non avrà nessuna idea sull’originale, anzi avrà più che mai le
idee confuse; le attualizzazioni creano dei falsi storici ritenuti veri dal
pubblico a cui si rivolgono ed in questo nocciono alla cultura del paese.
Nocività di cui Busi si mostra ben consapevole se alla domanda: “E dove va a finire la responsabilità civile
degli intellettuali? La tutela del patrimonio culturale di un popolo eccetera
eccetera?” risponde “Ma
chissenefrega”.
Da
questo rischio si sottrae, forse, l’edizione sinottica del Principe di Machiavelli a cura di Piero Melograni, che pone sulla
pagina di destra l’originale di Machiavelli così come riportato nella sua prima
edizione a stampa (salvo ammodernamenti grafici e di punteggiatura), mentre
sulla pagina di sinistra la versione modernizzata, molto fedele al testo
originale, corredata da un ampio commento linguistico e storico. C’è da dire,
tuttavia, che un’operazione del genere è molto più semplice e, se vogliamo,
appropriata, per un testo come il Principe
che solo casualmente è stato attratto nel canone letterario, essendo
originariamente un trattato di scienze politiche[14].
Il classico, quello originale, ha
una valenza didattica e pedagogica che spinge a confrontarsi con la molteplicità delle culture del mondo
contemporaneo (Settis), allena alla comprensione di mondi distanti nello
spazio e nel tempo e impone un esercizio mentale e culturale che invece le
attualizzazioni negano, volgendosi ad una fruizione rapida e utilitaristica di
contenuti privi di contesto.
2.3. Conclusione:
l’utilità.
Come
si colloca dunque l’attualizzazione rispetto all’originale? Secondo Aldo Busi il
rapporto è diretto: l’attualizzazione è l’originale, proprio come se
attraverso una trafila di copia l’originale si fosse naturalmente corrotto
nella sua attualizzazione. Una volta letta la sua opera, dunque, non vi sarebbe
alcun motivo per andare a leggere quella del Boccaccio.
Se la realizzazione stessa della
“traduzione” di un classico porta già con sé rischi considerevoli, la volontà
di far passare l’attualizzazione come il testo originale è non solo inutile per
la formazione culturale, ma addirittura dannoso. Il lettore deve sì essere libero
di poter leggere l’attualizzazione, ma deve anche essere consapevole di quello
che sta leggendo, del fatto che quello che sta tenendo fra le mani non sia che
una brutta copia, una copia semplificata, di un’opera scritta in un’altra
epoca, con canoni culturali e linguistici differenti. Al contrario il lettore
del Decamerone di Aldo Busi non sarà
affatto invogliato a confrontarsi con l’opera di Boccaccio, costituendo il
primo un ostacolo per il recupero della seconda.
A questo proposito sembrano molto
più utili tutti quei prodotti, culturali o meno, che si pongono in rapporto più
o meno diretto con un classico. La curiosità di andare a leggere il Decameron originale potrebbe essere
stimolata, ad esempio, da un film come il Decameron
di Pierpaolo Pasolini, ma anche da prodotti di più bassa lega come tutto il
filone della Decamerotica degli anni
Settanta, che selezionano una parte minima, a volte infima, dei contenuti
dell’opera originale, senza nessuna intenzione di volerla eclissare. Di questi
argomenti si è occupato magistralmente il prof. Marco Bardini, docente di
Letteratura Italiana Contemporanea per la facoltà di Lingue e Letterature
Straniere dell’università di Pisa che, in molti articoli[15] e pubblicazioni, ha cercato
tracciare una panoramica degli infiniti modi in cui, nella cultura
contemporanea, il messaggio di Giovanni Boccaccio si manifesta ancora,
direttamente o indirettamente. Prodotti come quelli analizzati da Bardini, pur
non avendo spesso alcuna intenzione culturale, tuttavia costituiscono un’evoluzione
dell’opera originale senza dubbio più “naturale” dell’attualizzazione, che
produce un’opera aliena sia al mondo di ieri che a quello di oggi, distruggendo
la forma linguistica in cui si manifesta la distanza storica e, con essa, lo
spessore della cultura.
Tuttavia un certo valore tendono a
mantenerlo quelle opere, come quella di Piero Melograni, che si pongono al
servizio e non in competizione col testo fonte. L’impostazione sinottica, con
testo originale a fronte e commento storico-linguistico, sembra la più utile a
questo scopo: in essa, la resa in italiano moderno dovrà allontanarsi sia dalla
ricerca di attualizzazione forzata alla Busi, sia da compromessi astorici e
antichizzanti alla Quondam.
Concludendo, ritengo che dall’analisi
delle nuove forme in cui i messaggi dei classici si manifestano, e non da una
loro tardiva importazione e omologazione a categorie attualizzanti, dovrebbe
trarre un nuovo respiro la riflessione e la discussione su questi grandi
monumenti del passato. Di questa opinione mi sembra anche Salvatore Settis,
direttore emerito della Scuola Normale Superiore di Pisa:
“Se Dante è ancora un poeta
italiano non è perché le nostre biblioteche conservano, chiusi a chiave negli
armadi, tanti manoscritti della ”Divina Commedia”, ma è perché (o finché)
sappiamo ancora leggerla o intenderla, dato che per fortuna la lingua che
parliamo è più vicina a quella di Dante di quanto l’inglese parlato sia simile
a quello del molto più recente Shakespeare. In questo senso, Roberto Benigni
che fa letture pubbliche di Dante trascinando migliaia di uditori rende un
miglior servizio a Dante di quegli italianisti che si accingono a “tradurre” la
“Divina Commedia” in “italiano parlato” impoverito e pastorizzato per adeguarsi
alla banalità del linguaggio televisivo” [Italia S.p.A.
2004 , 27]
A cura di Leonardo CANOVA
A cura di Leonardo CANOVA
[1] Sull'opportunità
delle virgolette si vedano i paragrafi successivi.
[2]
Nel 1342 si era instaurata a Firenze la tirannide di Gualtieri di Brienne, duca
d’Atene, che durò meno di un anno. Nel 1345 ci fu una forte crisi finanziaria
in seguito al fallimento delle banche dei Bardi e dei Peruzzi.
[3]
Riccardo Tesi parla di
rewording esibito e compiaciuto: “attualizzatori”
indesiderati con effetto straniante con i quali l’autore azzera le distanze cronologiche e si pone
come testo alternativo al libro del Boccaccio.
[4]
In grassetto gli
attualizzatori di cui sopra.
[5]
Con una sintassi periodica tipica del latino che si oppone a quella lineare introdotta col prestigio del
francese tra il 500 e il 700 (Riccardo Tesi)
[6]
(Vicenza, 1929 – Treviso,
1986) è stato uno scrittore, giornalista, sceneggiatore, saggista e poeta
italiano.
[7]
E qui si sono volutamente
escluse le numerosissime edizioni di opere poetiche di classici con versione in
prosa.
[8] i.e. il toscano.
[9]
Sottolineati nella
citazione.
[10]
A tal proposito rimando al
lavoro di Riccardo Tesi (2005) che distingue fra “traduzione interlinguistica”,
“traduzione intralinguistica”, quella che serve per leggere Dante e Boccaccio,
e “traduzione endolinguistica”, per testi più recenti come quelli di Manzoni.
[11]
Vi sono anche interventi
più recenti come quello di Alfredo Stussi che, nel saggio La lingua del Decameron del 1995 (riedito nel 2005), afferma che: “L’ordine di successione di più pronomi atoni
è uno dei non molti fenomeni che, nella sostanziale staticità dell’italiano,
consentono di delineare un’evoluzione dall’antico al moderno”.
[12]
Ma qui anche un sostenitore
della “traduzione” dei classici ammette come Riccardo Tesi che nei confronti
della lingua del Manzoni si possa parlare al massimo di “riformulazione” e non
di “traduzione”.
[13]
Tradurre
i classici italiani? Ovvero Gramsci contro Rousseau, Belfagor, LXV (2010), 1, pp.
3-32
[14]
Lo stesso varrebbe per Il Cortegiano di Castiglione, anch’esso
non propriamente un’opera letteraria; tuttavia l’edizione curata da Quondam si
attesta su una lingua intermedia, un italiano moderno antichizzato, che non è
mai esistita e non rappresenta né l’originale, né la lingua moderna.
[15] Si veda ad esempio “Il nome di Boccaccio nei titoli
cinematografici” in il Nome nel testo
- vol. XII/2010.
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