sabato 9 novembre 2013

Il "Decamerone" di Aldo Busi e l'utilità delle attualizzazioni dei classici italiani


“ Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quello che ha da dire”
Italo Calvino

Introduzione – Il fatto

Quest'anno, in occasione del settimo centenario della nascita di Giovanni Boccaccio, sono fiorite numerose pubblicazioni, critiche e letterarie, sull'opera dello scrittore certaldino, in particolare sul Decameron. Tra queste, in un'intervista per Il Venerdì di Repubblica del 4 Ottobre 2013 a firma di Luigi Irdi, Aldo Busi rispolvera per l'occasione una sua “traduzione”[1] del Decameron di Boccaccio la cui prima edizione, per Rizzoli, risale addirittura al 1990 e che, quest’anno, è stata premiata col Premio Letterario Giovanni Boccaccio 2013.
            Aldo Busi è noto come romanziere, come critico artistico e letterario, come personaggio televisivo, ma in particolar modo per il suo spirito provocatorio, ostentatamente rivoluzionario e disfattista, con cui si presenta nelle varie trasmissioni televisive. Ne segue che Busi veda naturale, addirittura “indispensabile”, una “traduzione” del capolavoro boccaccesco, in quanto – cito – “L'italiano del trecento è una lingua totalmente straniera” che, come tale, merita di esser tradotta proprio come le opere inglesi, francesi ecc.
            Al rischio di corrompere il messaggio originale dell'autore, la sua ultima volontà, Busi contrappone il notevole guadagno tratto dal recuperare un' opera relegata in asfittiche edizioni piene zeppe di note linguistiche che, per il traduttore, sono “una gran rottura di palle”. Allora via all'attualizzazione coatta, benvenuti neologismi, anacronismi, che ripristino il senso del riso che, sotto una patina linguistica ormai datata, si era perso nell'opera originale che, comunque, resta a disposizione di tutti. Questa è un'operazione che, a detta dell'autore non dovrebbe risparmiare nessun testo, anche più recente – si cita Le sorelle Materassi di Palazzeschi – pur di riportare alla luce opere altrimenti confinate ai più remoti e polverosi scaffali delle librerie.


1.    Il Decamerone di Aldo Busi

Curioso, ed anche un po' scettico, mi sono procurato una copia dell'edizione 2013 per BUR del Decamerone (versione in italiano moderno) di Aldo Busi. La quarta di copertina riporta queste parole del “traduttore”:
Ho tradotto Il Decamerone di Boccaccio
non ho scritto il mio. Questa traduzione
non ha affatto la pretesa di essere
una traslitterazione o una ricreazione
o altra cosa dall'originale: è l'originale oggi.

Tralasciando il fatto che qualsiasi filologo, leggendo questa dichiarazione, arriccerebbe quantomeno il naso, mi sembra un obiettivo alquanto ambizioso.
            Comunque, apro il libro e mi trovo davanti una “Nota del Traduttore” che recita: “Via i preamboli, le canzoni e le sfiziose oziosità in villa delle sette conteuses e dei tre raccontatori fra una giornata e l'altra; via gli abboccamenti moralistici che gravano su quasi ogni singola novella; via la maggior parte dei titoli di messere e cavaliere – che poi, a ben guardare, a cavallo ci vanno ben poco e trattasi di cavalieri tutt'al più del lavoro, cioè di commenda che per tutta la vita hanno fatto lavorare gli altri”. In tre parole: via la cornice.
            Conscio di questi propositi ho voluto vedere nel concreto che cosa avesse fatto Busi nella sua “traduzione”, perciò ho ripreso la mia vecchia edizione del Decameron di Giovanni Boccaccio, Einaudi 1980, a cura di Vittore Branca, ed ho scelto qualche novella come campione per vedere come si fosse comportato Busi nelle varie situazioni che Boccaccio affronta nella sua opera.

1.1.  Busi e Boccaccio

Capacità universalmente riconosciuta del Boccaccio fu quella di aprire il tessuto narrativo alle varie sfaccettature del reale, analizzate, con una pluralità di stili che vanno dal popolare e prosastico al sublime e tragico,  grazie ad una prosa latineggiante (il cui modello principale è Livio) fatta di periodi ampi e modulati, ricchi di subordinazioni, che “sembrano voler seguire tutte le sinuosità, le sfumature della realtà mediante sempre nuove precisazioni e nuove specificazioni” (Ferroni).
            La suggestiva interpretazione di Vittore Branca, che si accorge dei rapporti che intercorrono tra la cornice e le novelle, vede nel Decameron lo schema medievale della “commedia”: un percorso ascensionale che va dal puro vizio della prima giornata, concretizzato nella figura di Ser Ciappelletto, alla pura virtù dell'ultima, concretizzata nella figura di Griselda; durante le giornate si esplicherebbe quindi l'azione delle tre grandi forze che reggono il mondo: la Fortuna (II e III giornata), l'Amore (IV e V giornata) e l'Ingegno (VI, VII e VIII giornata), mentre la IX giornata costituirebbe una ripresa dei temi precedenti.
            Dunque, proprio per vedere come Busi si fosse destreggiato in questo “mondo” boccaccesco, ho scelto di analizzare, oltre alla mancanza della cornice, tre novelle che ho ritenuto rappresentassero bene alcune delle sfaccettature di questo mondo: III,1 Masetto da Lamporecchio e le monache (Le corna di Cristo per Busi), VI,4 Chichibio cuoco (La coscia fantasma per Busi), X,10 Griselda e il marchese di Saluzzo (Griselda, l'invincibile disfatta per Busi).

1.1.1.      La cornice

Il Decameron di Boccaccio è suddiviso in dieci giornate comprendenti dieci novelle ciascuna. Le novelle non ci vengono presentate una dopo l’altra, senza legami, ma si collocano all'interno di un quadro narrativo, definito appunto “cornice”, nel quale l'autore immagina una brigata di tre ragazzi e sette ragazze che, per sfuggire alle atrocità della peste imperversante a Firenze nel 1348, si rifugiano in un podere in campagna per dedicarsi a svaghi e diletti. In particolare si stabilisce che ogni giorno venga eletto un re o una regina che decida l'attività della brigata: la prima regina, Pampinea, decide che si trascorra il tempo a raccontare novelle e dunque, per dieci giorni, il re della giornata sceglierà l'argomento di cui gli altri componenti della brigata, narrando ciascuno una novella, dovranno trattare. Nella cornice l'autore prende direttamente la parola tre volte: in una breve introduzione iniziale in cui dedica l'opera alle donne, all'inizio della quarta giornata, e nella conclusione, dove si esaltano la molteplicità dei punti di vista e la mutevolezza delle cose del mondo.
Ogni giornata è poi introdotta da una breve introduzione in cui si descrivono le attività della brigata: l'introduzione alla prima giornata descrive “l'orrido cominciamento”, ovvero la peste del 1348, rappresentata in modo scrupoloso e realistico: in questo modo il raccontare diventa restaurazione di un ordine, risposta allo sconvolgimento che la peste (e gli eventi che l’avevano preceduta[2]) ha causato nella città. I rapporti fra i tre giovani e le sette fanciulle restano nei limiti del decoro e realizzano un mondo stilizzato e ben composto che si oppone sia a quello cittadino sia a quello erotico-carnevalesco di cui spesso trattano le novelle, recuperando il modo di vivere cortese che Boccaccio aveva avuto modo di conoscere nella sua gioventù napoletana.
            Le figure dei narratori e delle narratrici, individuate da nomi fittizi (che spesso rimandano ad altre opere dell'autore), sono prive di individualità e di una psicologia precisa: sono strumenti dell'autore grazie ai quali guardare l'infinita varietà del reale dall'ordine perfetto di una vita decorosa e regolata.
            Nonostante questo, l'espediente della “cornice” dona all'opera una forte unità e  strutturazione e colloca le novelle in un contesto edificante che, come abbiamo visto, può essere interpretato come un percorso ascensionale, attraverso la realtà, verso la virtù.
            Aldo Busi non elimina completamente la cornice: mantiene gli interventi dell'autore e la descrizione della peste ma decide di sopprimere tutte le introduzioni alle giornate in quanto l'inconsistenza psicologica dei narratori permette liberamente di eliminarli: “Quel che conta è la narrazione per bocca, si fa per dire, di un uomo o di una donna il cui nome solitario in cima a ogni storia non ne può ulteriormente impoverire il già stringato profilo esistenziale”. 
            Ciò che Busi non considera, a mio parere, nel compiere questo taglio indiscriminato, è che a Boccaccio non interessasse affatto dare un profilo psicologico ai suoi personaggi ma utilizzarli per esprimere una visione policentrica del reale: tagliando le pur brevi introduzioni alle giornate si priva il testo di quell'alternanza disordine/restaurazione dell'ordine che costituisce l'ossatura stessa dell'opera originale.
            Sempre Vittore Branca ha notato che i tre personaggi maschili (Panfilo, Filostrato e Dioneo) rappresentano tre diverse immagini dell'autore, grazie alle quali si tenta un approccio diverso alla materia trattata, sempre con il proposito di rendere ogni piega della realtà.
            Busi, tagliando queste scenette di vita cortese che intervallano le novelle, non solo dà un taglio nettamente diverso all'opera, che davvero diventa una mera raccolta di novelle individuate solo da un titolo e dal nome di un narratore di cui non sappiamo niente, ma rende difficile anche capire alcune particolarità dell'opera.
            Ad esempio Dioneo all'inizio della seconda giornata riceve il privilegio di raccontare l'ultima novella di ogni giornata, svincolato dall'argomento stabilito dal re o dalla regina di quel giorno e propendendo per la materia più strettamente comica ed erotica; il lettore del Decamerone di Busi si troverà a leggere una novella slegata dall'unità tematica delle altre senza avere alcuna giustificazione in merito da parte dell'autore (né del “traduttore”). Inoltre, sopprimendo la cornice,si priva l’opera di quell’elemento originale che l’aveva distinta da raccolte precedenti come Il Novellino.

1.1.2.      Il comico e i “motti di spirito”

Per cominciare a farmi un'idea del lavoro di Busi ho deciso di prendere le mosse da un terreno che, viste le sue esperienze letterarie, ritenevo più congeniale all'autore. Perciò mi è venuta la curiosità di vedere come, un misogino anticlericale come Busi, rappresentasse le monache, già tanto colpite dallo spirito di Boccaccio.
            Nella prima novella della terza giornata, Masetto da Lamporecchio e le Monache, Filostrato narra di un giovane e avvenente contadino, Masetto, che, fingendosi muto, si fa assumere come giardiniere di un convento di monache, le quali fanno a gara per giacere con lui.
            La versione di Busi, Le corna di Cristo (il titolo è ripreso dalle ultime parole della novella originale), ricalca sostanzialmente la novella originale, introducendo novità soltanto a livello linguistico. A un livello lessicale Busi fa un largo uso di espressioni colloquiali e polirematiche di uso contemporaneo nelle quali si nota una forzosa (e esibita) volontà di modernizzare senza curarsi di introdurre anacronismi e vere e proprie forzature[3]. Busi “traduce” anche espressioni perfettamente comprensibili con altre prese dalla lingua dell'uso contemporanea se non addirittura dal (o da quello che lui crede essere) gergo adolescentesco, di cui spesso non si sente il bisogno e anzi si percepisce un forte stridore; così forte e robusto diventa un fisico che levati!, deh come ben facesti a venirtene! viene reso con hai fatto proprio bene a piantarle lì nella merda; vengono introdotte espressioni come da vero maciste, in un batter d'occhio, belle belline (per “carezze”), figata, super, situazione del cacchio, assunse. Il tutto tende ad assumere quindi un registro più marcatamente colloquiale, lontano dallo stile avvolgente di Boccaccio che abbraccia diversi registri rimanendo però sostenuto e regolato: distaccato. Inoltre sempre a livello lessicale, come in ogni “traduzione”, si perdono contenuti semantici importanti: nel passaggio da omicciuolo a ometto si ha addirittura una connotazione opposta, dovuta forse ad una svista dell'autore, in quanto il primo è un dispregiativo mentre il secondo un vezzeggiativo.
            Risultati migliori Busi li raggiunge a livello sintattico: la struttura del discorso risulta notevolmente semplificata e alleggerita, effettivamente più comprensibile dell'originale per un parlante contemporaneo ma senza che venga clamorosamente tradita l’argomentazione dell'autore. I periodi ampi e ricchi di subordinazione boccacceschi sono qui resi grazie a una lingua più piana e paratattica in cui difficilmente si supera il primo grado di subordinazione. Al di là dell'insostenibilità del metodo, di cui tratteremo più tardi, forse questo è l'unico ambito in cui l'opera di Busi raggiunge qualche risultato apprezzabile. A questo proposito basti come esempio l'analisi di un periodo della novella III,1:

“Ora, avendo il castaldo veduto che egli ottimamente sapeva lavorare e con cenni domandatolo se egli voleva star quivi e costui con cenni rispostogli che far volea ciò che egli volesse, avendolo ricevuto, gl'impose che egli l'orto lavorasse e mostrogli quello che a fare avesse.” [Boccaccio]

Vediamo qui un periodo riccamente articolato in uno schema molto ben architettato: due principali coordinate reggono entrambe una subordinata oggettiva; sempre al primo grado di subordinazione abbiamo quattro attributive causali\temporali coordinate tra loro, le prime tre delle quali reggono, al secondo grado di subordinazione, o un'oggettiva o un'interrogativa indiretta. 

“Il fattore, visto che era un gran lavoratore e tutto precisino[4], gli chiese a gesti se voleva restare e, sempre a gesti, lo vide rispondere che si metteva a sua disposizione, perciò lo assunse e gli ordinò di occuparsi dell'orto...” [Busi]

La semplificazione salta subito all'occhio, il periodo si fa paratattico e la subordinazione non va oltre il primo grado. Inoltre si nota un riordinamento delle frasi, e delle parole all'interno delle frasi, più conforme all'italiano dell'uso contemporaneo.
            Le stesse operazioni lessicali e sintattiche Busi le ripropone anche nella sesta giornata dedicata ai “motti di spirito”: il sapiente uso del linguaggio che regola o sospende il conflitto con gli altri individui, trasformando l'aggressività in manifestazione di civiltà.
            Curioso di vedere come Busi avesse reso i “motti di spirito” ho analizzato la famosa novella VI,4: Chichibio cuoco, per Busi, La coscia fantasma. La “traduzione” ricalca grossomodo la versione originale, pur sforzandosi di modernizzare il testo ancora una volta grazie ad espressioni di cui non si sente il bisogno come: ping-pong, bird-watcher, cagarella super, magna-a-ufo, scottadito. Anche il dialetto veneziano del protagonista, Chichibio, viene reso da Busi che anzi lo amplifica e lo estende ad ogni intervento in discorso diretto del personaggio, introducendo termini dialettali come sior, non presenti nell'originale. Anche qui la semplificazione sintattica è ben realizzata e nel complesso, ancora una volta salvo gli eccessi di cui sopra, non si sente una forte perdita di contenuti rispetto all'originale.

1.1.3.      Tragico e Sublime

Il “giochino” di Busi, come abbiamo visto, tutto sommato regge per le novelle di argomento comico-scherzoso Mi sono chiesto allora come avesse operato, invece, per le parti di testo di argomento più tragico e sublime. Il nocciolo della questione sta in quell'invece: sostanzialmente Busi opera nello stesso modo per ogni passo del Decameron. Vediamo come.
            Uno dei passi più volutamente tragici e realistici del Decameron, dove anche l’ironia che caratterizza gran parte dell’opera tende a farsi da parte, è sicuramente la descrizione della peste di Firenze, il cosiddetto “orrido cominciamento”; volutamente perché deve servire da contraltare a tutto ciò che la segue: in essa Boccaccio vuole rappresentare l'orrore e la tragedia, il caos sorto da un’epidemia vista tutta con occhi umani, non divini, che ha scardinato tutto il sistema di valori morali e la stessa vita sociale, portando la società contemporanea al suo massimo grado di disgregazione. La descrizione, che ha alle spalle celebri precedenti letterari come l’Historia Langobardorum di Paolo Diacono, deve essere cruda e particolareggiata proprio per marcare lo stacco con l'ordine del locus amoenus in cui si svolgono le attività della brigata di cui, nell’opera di Busi, non abbiamo notizia.
            Se l'inserimento di espressioni gergali e colloquiali si poteva ancora tollerare all'interno delle novelle che abbiamo analizzato, qui l'impressione che se ne ricava è quella di una vera e propria parodia del testo originale. La peste sembra esser descritta da Busi con un sorrisetto compiaciuto stampato sulla faccia: la tragedia viene meno, il realismo pure, ciò che resta è il popolino che si agita sullo sfondo di una città dipinta in modi a tratti farseschi. Qui espressioni come fracco, quattro e quattrotto, a sbafo, i cavoli suoi, e stop, chi se ne impipa, e amen, non si limitano a stridere come nelle novelle di cui sopra, ma danno l'impressione di un qualcosa di forzato, che niente ha a che vedere con la volontà dell'autore. Non solo il lessico ma tutta l'impalcatura sintattica e stilistica contribuiscono a questa visione parodistica dell'originale boccaccesco, per cui, per fare un esempio,  un periodo come:

“Dico che di tanta efficacia fu la qualità della pestilenza narrata nello appiccarsi da uno a altro, che non solamente l’uomo all’uomo, ma questo, che è molto di più, assai volte visibilmente fece, cioè che la cosa dell’uomo infermo stato, o morto di tale infermità, tocca da un altro animale fuori della spezie dell’uomo, non solamente della infermità il contaminasse ma quello infra brevissimo spazio uccidesse.”

Viene “tradotto” con:

“Sottolineo che la virulenza della peste fu tale che non soltanto l’uomo attaccava al suo simile, il che va da sé, ma addirittura successe un fracco di volte che una cosa dell’ammalato o del morto, toccata da un animale di tutt’altra specie, non solo lo contagiasse della stessa malattia, ma lo uccidesse in quattro e quattrotto.”

Ma gli esempi si potrebbero moltiplicare.
Ora, forse non ci riuscirà difficile immaginare un Boccaccio contemporaneo che, per rappresentare la vita licenziosa delle monache, faccia uso di espressioni come merda, maciste e figata, ma penso che chiunque faccia fatica a immaginare un Boccaccio compiaciuto di parodiare una descrizione di un cataclisma naturale la cui funzione all'interno del testo è, per giunta, quella di generare orrore nei lettori, e nelle lettrici, con una rappresentazione di totale dissipazione morale e civile.
            Busi riesce a contenersi un po' di più nella resa della novella X,10: Griselda e il conte di Saluzzo, culmine della rappresentazione della virtù umana in cui lo stile si fa più marcatamente sublime e tragico. Nella “traduzione” di questa novella, che Busi intitola Griselda, l'invincibile disfatta, l'autore sembra cercare uno stile un po' più sostenuto, anche se non di rado sprofonda in quel “feticismo del moderno” che caratterizza l'intera “traduzione”. Così, sebbene in forme più mitigate, l'eroica vicenda di Griselda, apoteosi della madre e della moglie, non manca di accogliere espressioni come coglioneria grandissima, anticamera del cervello, pedigree, pompamagna, test, tiè, brodo di giuggiole, commercialista. Il risultato, anche qui, è quello di un rovesciamento parodico dell'originale, come risulta dal confronto del seguente passo:

“E egli disse: <<E io voglio te per mia moglie>>; e in presenza di tutti la sposò; e fattala sopra un pallafren montare, orrevolmente accompagnata a casa la si menò” [Boccaccio]

“<<Benone, e io ti voglio per moglie>> e la sposò in presenza di tutti quei testimoni, poi la fece salire su un bel cavallo e se la portò a casa in pompamagna.” [Busi]

in cui l’atmosfera aristocratica e fiabesca si perde con l’introduzione di inutili attualizzatori.

1.1.4. Considerazioni finali sull'opera

Della necessità e utilità di una “traduzione” dei classici italiani parleremo nel capitolo successivo. Qui solo alcune considerazioni sulla qualità della “traduzione” del Decameron compiuta da Busi.
            Il Decamerone di Aldo Busi è un'opera di agile e piacevole lettura il cui maggiore difetto sta appunto nel porsi come “traduzione” dell'originale boccaccesco. La semplificazione generale della struttura narrativa e della cornice relega le novelle ad occasioni casuali, non inserite in un contesto e in un progetto come quelle dell'originale. Ciò che si perde, a livello di contenuto, è il messaggio stesso, la morale, se vogliamo, dell'opera, vista da Busi come un libello pieno di racconti licenziosi e burleschi il cui unico obiettivo è suscitare la risata. E in effetti è proprio questo il modo in cui ci viene presentata questa “traduzione”. Se questo fosse stato l'intento dell'autore, allora Busi avrebbe davvero realizzato ciò che si era proposto di fare, ma la perdita di contenuto rispetto all'originale è notevole e difficilmente giustificabile per un'opera che vuole proporsi come l'originale oggi. Al passato rimangono la vita della brigata, i modi di vedere la realtà di ogni personaggio, il proposito della brigata di restaurare un ordine dove più non c'era, lo stesso principio di ordine che regola tutta l'opera, nonché tutte le strutture e convenzioni civili e sociali della Firenze comunale del Trecento. In sostanza, si azzera la distanza storica necessaria alla comprensione dell’opera, producendo un testo acronico (Tesi) che pretende di sostituirsi all’originale.
            Più grave ancora della perdita di contenuti è, a mio parere, l'appiattimento stilistico operato da Busi su tutta l'opera. La caratteristica che forse salta più all'occhio dell'opera di Boccaccio è l'utilizzo di una lingua fiorentina che si dispone con equilibrio classico[5], in forme aristocratiche che rifiutano ogni elemento dialettale o troppo particolare ma che, spesso, proprio col proposito di addentrarsi nelle più segrete pieghe della realtà, si apre a costruzioni e termini popolari e vernacolari, a dialetti specifici di alcune aree geografiche, fino a precipitare verso la deformazione espressiva ed alla parodia di se stessa.
            Aldo Busi, al contrario, abbassa tutto verso uno stile basso e piano, ricco di termini popolari e colloquiali che, se possono essere accettati in ambito comico-burlesco, difficilmente si sposano ad argomenti di tono più serio ed elevato (è il caso, come abbiamo visto, della descrizione della peste). L'impressione di deformazione parodistica giunge a toccare il grottesco proprio in quei passi in cui il Boccaccio vi si era tenuto più lontano, andando a rendere ridicole e patetiche le più alte figure dell'opera. Lo stile di Boccaccio è uno stile classico e sostenuto che non disdegna, dove ce ne sia bisogno, di aprirsi a registri bassi e popolareggianti, lo stile di Busi è uno stile basso e colloquiale che, invariabilmente, riproponendo gli stessi stilemi, non fa percepire alcuna variazione di tema e pone tutta la narrazione ad un livello di ordinaria bassezza.
            Oltre a questo, “tradurre” Boccaccio va incontro ad un problema di fondo. Come si può pensare di arrogarsi il diritto di produrre un nuovo originale, quando Boccaccio fu il primo nella storia a sostenere la necessità di leggere le opere in lingua originale, occupandosi personalmente di promuovere lo studio della lingua greca in Italia?
             

2.        La “traduzione” dei classici italiani

L’abitudine di “tradurre” i classici italiani in una lingua più vicina alla nostra è più diffusa di quanto si possa pensare, e anche più antica. Infatti, già nel 1612, Paolo Beni, filologo e studioso di Aristotele, decise di tradurre alcuni passi del Decameron in una lingua “moderna”, “regolata e gentile”, in contrasto con la vera e propria censura perpetrata dal Salviati con la sua “rassettatura” del 1582. Tuttavia perché studi di questo genere ritornino a suscitare interesse, eccezion fatta per alcuni lavori minori degli anni ’60, dobbiamo attendere la fine del XX secolo.
Nel 1990 veniva data alle stampe da Rizzoli la “traduzione” del Decameron di Giovanni Boccaccio realizzata da Aldo Busi che, in effetti, può essere considerato un pioniere di questo “genere”. Circa un anno dopo Piero Melograni, docente di storia contemporanea dell’Università di Perugia, recentemente scomparso, rilasciava questa dichiarazione:

“Alcuni anni or sono, Goffredo Parise[6]mi confidò […
] di esser riuscito a capire e a gustare “il Principe” di Machiavelli solamente dopo averlo letto in traduzione francese. Soggiunse che gli stranieri conoscevano Machiavelli meglio degli italiani, poiché avevano la fortuna di leggerlo  tradotto.” [Melograni, Premessa e dedica al Principe di Machiavelli]

Frutto di queste idee fu l’edizione sinottica del Principe di Machiavelli, “tradotta” da Piero Melograni in italiano contemporaneo, data alle stampe nel 1991 ancora una volta da Rizzoli. Proprio in quegli anni vennero a moltiplicarsi pubblicazioni di questo genere: tra il 1992 e il 1993 sempre Aldo Busi, questa volta aiutato dalla scrittrice Carmen Covito, pubblica per Rizzoli le “traduzioni” de Il Novellino e del Cortigiano di Baldesar Castiglione; sempre nel 1992 Myriam Cristallo produce, ancora per Rizzoli, la sua “traduzione” del Galateo di Giovanni della Casa, mentre tutta una serie di lavori sul Decameron e su Il Principe continueranno ad esser editi fino agli inizi del XXI secolo.
Ancora oggi l’editor Federica Magro, responsabile dei tascabili RCS ha progettato una collana per la quale ha chiesto ad autori contemporanei di riscrivere liberamente alcuni dei grandi classici della letteratura italiana come, appunto, Il Principe di Machiavelli, la cui nuova edizione è curata dalla filologa Martina di Febo, Le Ultime Lettere di Jacopo Ortis di cui si occupa Sebastiano Mondadori, per poi arrivare alla Gerusalemme Liberata di Tasso e agli stessi Promessi  Sposi di Manzoni. Sempre in quest’ottica riattualizzante è da vedere il lavoro di Amedeo Quondam, professore di letteratura italiana all’Università La Sapienza di Roma, nonché ex presidente dell’ADI (Associazione degli Italianisti Italiani), che ha “tradotto” in italiano contemporaneo, seppur in una veste molto accademica, Il Cortegiano di Baldesar Castiglione nell’opera Il Cortigiano edita da Mondadori nel 2002.
            Il fiorire di pubblicazioni di questo genere[7] dimostra che ormai da diversi anni la discussione sull’opportunità di “tradurre” i classici italiani in italiano contemporaneo si è fatta accesa, soprattutto per la possibilità di importare queste versioni “tradotte” nelle scuole. Potrà stupire ma numerosi studiosi italiani, letterati, linguisti e filologi, hanno sostenuto e tutt’ora sostengono l’utilità di questo genere di operazioni, che hanno ricevuto un’investitura ufficiale nella relazione del presidente dell’ADI, Vitilio Masiello, su Quale ruolo per la Letteratura Italiana nella scuola del 2000?, redatta in risposta alle problematiche sorte in seguito alla legge n°30 del 10 Febbraio 2000 sul riordino dei cicli di istruzione. Da lì presero avvio i lavori di una commissione di studiosi, tra cui Marco Santagata, Mirko Tavoni e lo stesso Amedeo Quondam, che raccomandò l’elaborazione e l’utilizzo sistematico nella scuola di classici italiani tradotti per venire incontro alle esigenze di un mondo mutato. Tra le due vie individuate da Masiello sul fatto che la scuola debba operare secondo i principi di una pedagogia adattiva, secondando le tendenze in atto oppure configurarsi come il luogo di distanza critica dall’immediatezza del reale la commissione sembra quindi orientata verso la prima.
            Dal mio punto di vista la questione della “traduzione” dei classici italiani pone perlomeno due problemi di fondo: uno linguistico, ovvero la necessità, o meno, di tradurre l’italiano[8] del Trecento, considerandolo quindi separato dalla nostra lingua contemporanea; uno culturale, ovvero se il testo “tradotto” abbia un qualche valore per la conoscenza dell’originale, come si debba porre la “traduzione” all’interno della tradizione di quell’opera e quali siano i rischi e i benefici dell’annullamento della distanza storica e culturale; uno utilitaristico, ovvero: fino a che punto la “traduzione” di un classico attrae utenti disinteressati all’opera originale?

2.1.  Traduzione o “traduzione”: la lingua

Che l’italiano letterario del Trecento sia in una certa misura differente da quello che comunemente usiamo oggi ci sembra una cosa ovvia. Ma fino a che punto quella lingua ci risulta incomprensibile, tanto da dover richiedere di essere “tradotta”? Quanto la nostra lingua (perché della nostra lingua, e non di un'altra, si tratta) si è trasformata negli ultimi settecento anni?
            Evitando di impelagarsi in considerazioni linguistiche poco adatte ad un pubblico di liceali, per chiarire le idee mi sembra opportuno il confronto con un’altra lingua con cui spesso abbiamo a che fare: l’inglese. Quelli che seguono sono alcuni versi, scelti in verità in modo abbastanza casuale, del Sir Gawain e il Cavaliere Verde, un poema cavalleresco composto in Inghilterra all'incirca quando il Decameron stava subendo le ultime revisioni da parte dell'autore.

“(bob)
ful clene
(wheel)
for wonder of his hwe men hade
set in his semblaunt sene
he ferde as freke were fade
and oueral enker grene” 
( Sir Gawain and the Green Knight versi 146–150)

Al di là delle considerazioni linguistiche si osservi che il correttore automatico di MS Word, impostato sulla lingua inglese, considera molte più parole come errate di quante invece non siano considerate esatte, sul canone dell’inglese contemporaneo. Un'altra lingua, in questo caso non vi sono dubbi, tanto che, quando J.R.R. Tolkien decise di riscrivere il poema in inglese moderno, nessuno protestò.
Possiamo dire lo stesso della prosa di Boccaccio? No, non possiamo. Anche qui basti questa prova empirica a supporto di questa tesi:

 “Il quale. sì come il più de’ gentili uomini avviene, d’una gentil donna chiamata monna Giovanna s’innamorò, ne’ suoi tempi tenuta delle più belle donne e delle più leggiadre che in Firenze fossero; e acciò che egli l’amor di lei acquistar potesse, giostrava, armeggiava, faceva feste e donava, e il suo senza alcun ritegno spendeva; ma ella, non meno onesta che bella, niente di queste cose per lei fatte né di colui si curava che le faceva”. (Decameron, V,9)

Questo è un passo tratto dalla celebre novella di Federigo degli Alberighi del Decameron di Boccaccio, il correttore automatico di MS Word, buon testimone dell'italiano (scritto) contemporaneo, non segna nessuna parola. Bisogna tuttavia specificare che lo strumento informatico non tiene conto di almeno due grandi categorie di problemi:

·         i cosiddetti “falsi amici”[9], ovvero parole di suono e forma equivalente ma soggette, nel passaggio da una fase della lingua ad un’altra, a mutamento di significato. Ad esempio, l’aggettivo gentili nell’italiano di Boccaccio indicava un rango sociale aristocratico, e allo stesso modo onesta rimanda più a virtuosa che non a onesta nel senso odierno del termine.
·         le costruzioni sintattiche differenti dall’uso attuale: come ad esempio l’alto numero di incisi o la posizione dei possessivi rispetto al nome.

Le differenze, dunque, ci sono, ma non sono sufficienti a metterci nelle stesse condizioni di inglesi, francesi o tedeschi, le cui lingue sono cambiate drasticamente rispetto al Medioevo e che oggi non possono leggere i loro classici senza il supporto di un vocabolario e grazie allo studio di una diversa struttura grammaticale, proprio come farebbero con una lingua straniera. È ovvio che a livello storico italiano moderno e fiorentino antico siano nettamente separati (l’Italia, come nazione, nascerà soltanto nel XIX secolo e il fiorentino comincerà ad imporsi nella penisola soltanto a partire dal Cinquecento), ma in prospettiva linguistica si può effettivamente parlare di una stessa lingua, sebbene mutata nel tempo. Infatti, se è vero che comunemente costrutti sintattici complessi come quelli usati dal Boccaccio non si usano più e rendono più ardua la comprensione delle sue opere, è vero anche che la struttura della lingua contemporanea consentirebbe, potenzialmente, di usarli.
            A tal proposito sono interessanti i dati statistici proposti dal Dizionario Italiano Sabatini Coletti che rileva che più del 20% delle parole che registra un ampio dizionario dell’uso moderno sono attestate sin dal Trecento, ovvero venivano già usate da Dante e Boccaccio nella stessa identica forma; percentuale che aumenta esponenzialmente (oltre il 60%) se consideriamo anche parole formate solo successivamente ma a partire da basi già attestate allora: parole che, pur non venendo utilizzate, erano già inscritte nelle potenzialità strutturali dell’italiano.
            Si percepisce quindi, nelle varietà diacroniche dell’italiano, una continuità senza dubbio maggiore di quella di tutte le altre lingue europee: continuità però spesso negata da studiosi, come il linguista anglosassone Nigel Vincent, che sostengono che l’unità storica dell’italiano sia un mito che verrà ben presto dissipato[10]. Di questa continuità si era già accorto uno dei massimi linguisti italiani di fine ‘800: Graziadio Isaia Ascoli, che affermava:

“L’italiano vero e proprio, all’incontro [col francese], non è la resultanza del latino volgare che si combini o collutti con altre favelle, ma è la limpida continuazione del solo latino volgare […]. La maggior purezza della tempera del linguaggio si combina poi con una persistenza che rasenta l’invariabilità. Non c’è così un antico italiano da contrapporre al moderno, come al moderno francese si contrappone un antico […]. È evidente per tutti che la lingua di Dante è l’italiano che ancor vive e si scrive.”[11] [L’Italia dialettale 1882-1885, p. 124]

E infatti, se andiamo a vedere da vicino, a differenze come la sintassi dei pronomi atoni e del gerundio, e l’uso delle preposizioni, fanno da contrappeso fenomeni macrolinguistici come la costanza quasi assoluta dell’assetto fonetico-fonologico, la costanza di fondo dei paradigmi nominali e verbali, nonché del lessico. Se poi si volesse generosamente lasciare aperta la questione dell’italiano del Trecento, parlare di “traduzione” per il linguaggio sette-ottocentesco di Foscolo e Manzoni sembra quasi fantascienza[12].
            Per tutte queste considerazioni mi sembra opportuno mantenere le virgolette quando si parla di “traduzione” dei classici italiani.

2.2.  Attualizzazione o Banalizzazione: la cultura

Per quanto riguarda il valore culturale delle “traduzioni” dei classici italiani condivido in sostanza l’opinione di Michele Loporcaro[13], pur non volendo spingermi ad identificare due correnti di pensiero contrapposte e facenti capo a Gramsci (comunione culturale) e Rousseau (distruzione culturale).
Attualizzare in alcuni casi significa appiattire, cancellare quello che è stato e rendere tutto unidimensionale, acronico. Se è vero che tradizione e innovazione vanno di pari passo e che la rifunzionalizzazione di un testo serve a trasmettere ai posteri messaggi che altrimenti si dileguerebbero, tuttavia la via della “traduzione” coatta dei nostri classici potrebbe non essere la migliore in questa prospettiva.
            Un classico, diceva Calvino, è un libro che non ha mai finito di dire quello che ha da dire; ma la sua “traduzione” è un modo per schiarir loro la voce o per tappar loro la bocca definitivamente?
            Ora, supponiamo che uno studente universitario partecipi al programma ERASMUS e si rechi a studiare a Parigi. Insieme a lui partono altri quattro o cinque studenti italiani e tutti vanno a vivere nella solita casa, parlando normalmente italiano. Supponiamo anche che questo studente, nei rapporti che dovrà forzatamente intrattenere con gli autoctoni, non si sforzi di apprendere il loro linguaggio e che, di riflesso, coloro che interagiscono con lui limitino la loro espressività a poche frasi ben comprensibili. Al suo ritorno questo studente non solo non avrà imparato il francese, ma tantomeno avrà conosciuto la Francia e i francesi.
            La situazione non è molto diversa per l’eventuale lettore della “traduzione” di un classico italiano che non solo non avrà avuto modo di confrontarsi con quella che è la sua lingua, anche se nell’uso di qualche secolo prima, ma non avrà nemmeno avuto la possibilità di accedere a tutto quell’universo di valori ed espressioni culturali che ogni opera reca implicitamente con sé. Già Antonio Gramsci riconosceva il grande valore culturale prodotto dal confronto con i classici del passato, confronto che fornisce una materia di esercizio intellettuale e di riflessione, indispensabile per la formazione della cultura.
            A ben vedere è il metodo stesso della “traduzione” ad essere insostenibile: all’esigenza di colmare il divario storico e linguistico potrebbero tranquillamente assolvere delle note a piè di pagina, quelle gran rotture di palle di cui parla Aldo Busi. Lo studente, posto di fronte all’opera, avrebbe quindi una duplice opportunità: la conoscenza storico-culturale dell’epoca in questione e la possibilità di esercizio intellettuale su una forma di italiano diversa dalla sua. La “traduzione”, invece, si propone, sotto una veste falsamente attuale che crea degli ibridi che poco hanno della cultura di origine e poco anche di quella di arrivo, di distruggere il gap culturale creato dalla distanza storica in una prospettiva utilitaristica.
            Sì, per affrontare un classico è necessaria cultura, capacità metalinguistica e storica che la scuola dovrebbe fornire ai suoi allievi: ma quale strada scegliere? Gettare la cultura per produrre opere accessibili a tutti, che non sono i classici, oppure fornire agli studenti gli strumenti necessari ad affrontare l’originale? La scuola che ha formato la generazione precedente alla nostra riusciva ancora a far percepire una certa continuità tra la nostra lingua e quella del Trecento, oltre al fatto che l’espressione letteraria non è un universo a se, ma una variante diafasica, più complessa ed elaborata, dello stesso codice. La scuola di oggi evidentemente non riesce più a far percepire questa continuità se Tullio de Mauro, all’inizio degli anni Novanta, raccontava questo aneddoto:

“Tempo fa in un liceo italiano una professoressa ha fatto leggere ad un allievo un passo dell’Orlando Furioso, un testo che la generazione anziana nel suo segmento colto, ex liceale, era e ancora è abituata a considerare un testo facile, immediatamente trasparente. Il ragazzo ha letto e si è taciuto. La professoressa gli ha sollecitato con aria interrogativa un commento, una spiegazione. Il ragazzo […] ha esclamato: “A professoré, e che devo fare? Tradurre?”.” [Tullio de Mauro, Capire le Parole, 1994]

Un fallimento epocale, delle cui cause non parleremo in questa sede,  il cui prodotto finale è il destinatario ideale delle attualizzazioni dei classici italiani.
            Evitare di confrontarsi con la distanza che c’è tra il nostro mondo e quello di cui i classici sono testimoni è una scelta e, che si condivida o meno, non c’è niente da biasimare nel lettore che decide di confrontarsi con la sua versione “tradotta”. L’errore più esplicito, al limite della malafede, è quello degli editori-traduttori che presentano queste opere come originali contemporanei e illudono il lettore di aver effettivamente letto Boccaccio, Machiavelli, Castiglione ecc. e di aver colto a pieno il loro messaggio. Non è così. Il lettore dell’attualizzazione avrà letto un’opera più o meno ben realizzata, ma non avrà nessuna idea sull’originale, anzi avrà più che mai le idee confuse; le attualizzazioni creano dei falsi storici ritenuti veri dal pubblico a cui si rivolgono ed in questo nocciono alla cultura del paese. Nocività di cui Busi si mostra ben consapevole se alla domanda: “E dove va a finire la responsabilità civile degli intellettuali? La tutela del patrimonio culturale di un popolo eccetera eccetera?” risponde “Ma chissenefrega”.
Da questo rischio si sottrae, forse, l’edizione sinottica del Principe di Machiavelli a cura di Piero Melograni, che pone sulla pagina di destra l’originale di Machiavelli così come riportato nella sua prima edizione a stampa (salvo ammodernamenti grafici e di punteggiatura), mentre sulla pagina di sinistra la versione modernizzata, molto fedele al testo originale, corredata da un ampio commento linguistico e storico. C’è da dire, tuttavia, che un’operazione del genere è molto più semplice e, se vogliamo, appropriata, per un testo come il Principe che solo casualmente è stato attratto nel canone letterario, essendo originariamente un trattato di scienze politiche[14].
            Il classico, quello originale, ha una valenza didattica e pedagogica che spinge a confrontarsi con la molteplicità delle culture del mondo contemporaneo (Settis), allena alla comprensione di mondi distanti nello spazio e nel tempo e impone un esercizio mentale e culturale che invece le attualizzazioni negano, volgendosi ad una fruizione rapida e utilitaristica di contenuti privi di contesto.

2.3.  Conclusione: l’utilità.
Come si colloca dunque l’attualizzazione rispetto all’originale? Secondo Aldo Busi il rapporto è diretto: l’attualizzazione è l’originale, proprio come se attraverso una trafila di copia l’originale si fosse naturalmente corrotto nella sua attualizzazione. Una volta letta la sua opera, dunque, non vi sarebbe alcun motivo per andare a leggere quella del Boccaccio.
            Se la realizzazione stessa della “traduzione” di un classico porta già con sé rischi considerevoli, la volontà di far passare l’attualizzazione come il testo originale è non solo inutile per la formazione culturale, ma addirittura dannoso. Il lettore deve sì essere libero di poter leggere l’attualizzazione, ma deve anche essere consapevole di quello che sta leggendo, del fatto che quello che sta tenendo fra le mani non sia che una brutta copia, una copia semplificata, di un’opera scritta in un’altra epoca, con canoni culturali e linguistici differenti. Al contrario il lettore del Decamerone di Aldo Busi non sarà affatto invogliato a confrontarsi con l’opera di Boccaccio, costituendo il primo un ostacolo per il recupero della seconda.
            A questo proposito sembrano molto più utili tutti quei prodotti, culturali o meno, che si pongono in rapporto più o meno diretto con un classico. La curiosità di andare a leggere il Decameron originale potrebbe essere stimolata, ad esempio, da un film come il Decameron di Pierpaolo Pasolini, ma anche da prodotti di più bassa lega come tutto il filone della Decamerotica degli anni Settanta, che selezionano una parte minima, a volte infima, dei contenuti dell’opera originale, senza nessuna intenzione di volerla eclissare. Di questi argomenti si è occupato magistralmente il prof. Marco Bardini, docente di Letteratura Italiana Contemporanea per la facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell’università di Pisa che, in molti articoli[15] e pubblicazioni, ha cercato tracciare una panoramica degli infiniti modi in cui, nella cultura contemporanea, il messaggio di Giovanni Boccaccio si manifesta ancora, direttamente o indirettamente. Prodotti come quelli analizzati da Bardini, pur non avendo spesso alcuna intenzione culturale, tuttavia costituiscono un’evoluzione dell’opera originale senza dubbio più “naturale” dell’attualizzazione, che produce un’opera aliena sia al mondo di ieri che a quello di oggi, distruggendo la forma linguistica in cui si manifesta la distanza storica e, con essa, lo spessore della cultura.
            Tuttavia un certo valore tendono a mantenerlo quelle opere, come quella di Piero Melograni, che si pongono al servizio e non in competizione col testo fonte. L’impostazione sinottica, con testo originale a fronte e commento storico-linguistico, sembra la più utile a questo scopo: in essa, la resa in italiano moderno dovrà allontanarsi sia dalla ricerca di attualizzazione forzata alla Busi, sia da compromessi astorici e antichizzanti alla Quondam.
            Concludendo, ritengo che dall’analisi delle nuove forme in cui i messaggi dei classici si manifestano, e non da una loro tardiva importazione e omologazione a categorie attualizzanti, dovrebbe trarre un nuovo respiro la riflessione e la discussione su questi grandi monumenti del passato. Di questa opinione mi sembra anche Salvatore Settis, direttore emerito della Scuola Normale Superiore di Pisa:

“Se Dante è ancora un poeta italiano non è perché le nostre biblioteche conservano, chiusi a chiave negli armadi, tanti manoscritti della ”Divina Commedia”, ma è perché (o finché) sappiamo ancora leggerla o intenderla, dato che per fortuna la lingua che parliamo è più vicina a quella di Dante di quanto l’inglese parlato sia simile a quello del molto più recente Shakespeare. In questo senso, Roberto Benigni che fa letture pubbliche di Dante trascinando migliaia di uditori rende un miglior servizio a Dante di quegli italianisti che si accingono a “tradurre” la “Divina Commedia” in “italiano parlato” impoverito e pastorizzato per adeguarsi alla banalità del linguaggio televisivo” [Italia S.p.A. 2004 , 27]

A cura di Leonardo CANOVA




[1]          Sull'opportunità delle virgolette si vedano i paragrafi successivi.
[2] Nel 1342 si era instaurata a Firenze la tirannide di Gualtieri di Brienne, duca d’Atene, che durò meno di un anno. Nel 1345 ci fu una forte crisi finanziaria in seguito al fallimento delle banche dei Bardi e dei Peruzzi.
[3] Riccardo Tesi parla di rewording esibito e compiaciuto: “attualizzatori” indesiderati con effetto straniante con i quali l’autore azzera le distanze cronologiche e si pone come testo alternativo al libro del Boccaccio.
[4] In grassetto gli attualizzatori di cui sopra.
[5] Con una sintassi periodica  tipica del latino che si oppone a quella lineare introdotta col prestigio del francese tra il 500 e il 700 (Riccardo Tesi)
[6] (Vicenza, 1929 – Treviso, 1986) è stato uno scrittore, giornalista, sceneggiatore, saggista e poeta italiano.
[7] E qui si sono volutamente escluse le numerosissime edizioni di opere poetiche di classici con versione in prosa.
[8] i.e. il toscano.
[9] Sottolineati nella citazione.
[10] A tal proposito rimando al lavoro di Riccardo Tesi (2005) che distingue fra “traduzione interlinguistica”, “traduzione intralinguistica”, quella che serve per leggere Dante e Boccaccio, e “traduzione endolinguistica”, per testi più recenti come quelli di Manzoni.
[11] Vi sono anche interventi più recenti come quello di Alfredo Stussi che, nel saggio La lingua del Decameron del 1995 (riedito nel 2005), afferma che: “L’ordine di successione di più pronomi atoni è uno dei non molti fenomeni che, nella sostanziale staticità dell’italiano, consentono di delineare un’evoluzione dall’antico al moderno”.
[12] Ma qui anche un sostenitore della “traduzione” dei classici ammette come Riccardo Tesi che nei confronti della lingua del Manzoni si possa parlare al massimo di “riformulazione” e non di “traduzione”.
[13] Tradurre i classici italiani? Ovvero Gramsci contro Rousseau, Belfagor, LXV (2010), 1, pp. 3-32
[14] Lo stesso varrebbe per Il Cortegiano di Castiglione, anch’esso non propriamente un’opera letteraria; tuttavia l’edizione curata da Quondam si attesta su una lingua intermedia, un italiano moderno antichizzato, che non è mai esistita e non rappresenta né l’originale, né la lingua moderna.
[15] Si veda ad esempio “Il nome di Boccaccio nei titoli cinematografici” in il Nome nel testo - vol. XII/2010.

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