martedì 23 settembre 2014

Echi Danteschi in Canti del Caos di Antonio Moresco



Introduzione

Della difficoltà di collocare in una precisa corrente artistico-letteraria un’opera come Canti del Caos[1] dello scrittore mantovano Antonio Moresco ha già dato prova Raffaele Donnarumma il quale, nella conclusione del suo saggio La guerra del racconto: Canti del Caos di Antonio Moresco[2], ha cercato di individuare il canone entro il quale l’autore pone le sue radici. E in effetti la difficoltà, l’impossibilità talvolta, di ridurre una determinata opera o uno stesso autore ad una sterile etichetta costituisce da secoli una sorta di “marchio di qualità”.
Parlare di Dante come di uno stilnovista, di Leopardi come un romantico o di Montale come di un ermetico è infatti possibile soltanto al costo di ardite forzature che lasciano al di fuori dell’etichetta l’essenza stessa dell’autore.
Tuttavia da sempre la critica letteraria sente la necessità di semplificare, di ridurre ogni cosa a comode categorie sotto le quali inserire oggetti che non riesce a comprendere in pieno. Moresco è un postmoderno? Un moderno? Lo stesso autore si ribella a definizioni così semplicistiche in un’intervista rilasciata ad Andrea Tarabbia[3] poco prima della pubblicazione dell’ultima parte di Canti del Caos.
Ma dunque chi è Antonio Moresco? La risposta non può che essere tautologica: come Dante è Dante, Leopardi è Leopardi e Montale è Montale anche Moresco non potrà che essere Moresco. Qualsiasi definizione o etichetta, infatti, non potrebbe far altro che semplificare e banalizzare: in barba a chi ha sostenuto e tuttora sostiene che in epoca moderna le voci più potenti si levano sempre all’interno di un coro, appare sempre più evidente che i cosiddetti “grandi” sono grandi proprio perché dal coro si sono tenuti ben distanti, forse troppo “stonati” per poterne far parte.

lunedì 14 luglio 2014

Il Lessico Materiale nel VI canto dell’Inferno Dantesco - Un'idea di Cerbero


Cerbero secondo Gustave Doré



1.                  Introduzione al Canto

Il sesto canto dell’Inferno, con i suoi 115 versi, è uno dei più brevi di tutta la Commedia dantesca e può essere suddiviso sommariamente in tre parti: una prima parte, descrittiva, in cui ci viene presentato l’ambiente del terzo cerchio ed il suo custode, Cerbero (vv.1-36); una seconda, narrativa, in cui Dante incontra il goloso Ciacco che si lancia in una lunga invettiva contro Firenze e i peccati dei suoi cittadini (vv.37-93); infine una parte dottrinale in cui Virgilio spiega a Dante la condizione dei dannati dopo il giudizio universale (vv.94-115).
Dopo aver perso i sensi al termine dell’incontro con Paolo e Francesca, Dante si risveglia nel mezzo di una piova, composta da grandine, acqua tinta e neve, che percuote incessantemente i dannati che giacciono su una distesa di terra putrida e puzzolente. Loro guardiano e aguzzino è Cerbero, mostro mitologico-demoniaco sicuramente derivato dall’esempio virgiliano ma con caratteri del tutto nuovi: è una fiera mostruosa non soltanto perché tricipite ma soprattutto per quegli elementi umani (la barba, le mani, le facce) che Dante immagina inseriti sul corpo canino. Non più mostro classico ma demone medievale, Cerbero, con le barbe unte simbolo di ingordigia, vaga per il cerchio e iscoia ed isquatra i dannati.

Dante Personaggio nel Purgatorio

Le quattro Virtù Cardinali

Premessa: su Dante personaggio simbolico

Il tema “Dante-personaggio” (da qui semplicemente Dante) è presente nella critica dantesca sin dagli inizi del XX secolo, a partire dal D’Ovidio[1] per giungere fino alla recente interpretazione di Santagata[2]. Tuttavia, se è sempre stata chiara la distinzione tra un Dante personaggio (agens) e un Dante autore (auctor) all’interno della Divina Commedia, meno trasparente risulta essere quella tra un Dante storico (un uomo) e un Dante universale (l’uomo); distinzione che necessita di essere chiarita prima di addentrarci nel vivo della discussione.
Ancora Enzo Girardi[3], sulla scia dello Spitzer, parlava di “un personaggio […] sentito come simbolico, paradigmatico, fornito di quella natura «empirico-universale» in grazia della quale Dante si dimostrerebbe «not interested, paratically, in himself qua himself, but qua example of the generally human capacity for cognizing the supramundane[4]»”, senza accorgersi, tuttavia, della profonda differenza ed incompatibilità dei due termini “simbolico” e “paradigmatico”.
Intendendo “simbolico” come cosa che non vale per sé, per la sua realtà o entità, ma per ciò che rappresenta, notiamo subito come tale definizione non possa in alcun modo riferirsi ad un personaggio vivo e sempre attivamente presente (in particolare nella seconda cantica) come il protagonista della Commedia. In primo piano abbiamo sempre Dante Alighieri, guelfo fiorentino nato nel 1265, con le sue vicende private, le sue idee, la sua storia, i suoi pensieri. Che poi tutto questo serva da paradigma, da esempio, da modello in cui rispecchiarsi è indubitabile. Parleremo perciò di Dante come di un personaggio paradigmatico ma non simbolico, il cui valore universale non deriva dal personaggio stesso ma da un qualcosa a lui esterno. Non è dunque Dante ad essere simbolo dell’umanità ma l’umanità a doversi rispecchiare in Dante, grazie ad un meccanismo d’identificazione che ha come strumento principale la maraviglia, l’eccezionalità dei fatti narrati, e come fine quello didattico-didascalico.
Poste queste premesse, per analizzare Dante nella sua scalata verso la salvezza, dovremo seguire il suo percorso dai piedi alla vetta della Montagna per diverse volte, concentrandoci ognuna di esse su un aspetto differente. In particolare possiamo analizzare Dante da tre punti di vista: come penitente nella sua evoluzione comune alle altre anime; come poeta nella sua evoluzione poetica (che, come vedremo, si riflette nella sua evoluzione umana); come pellegrino nella sua evoluzione morale.